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"Barbarossa", il kolossal in costume di Renzo Martinelli


Renzo Martinelli racconta la "semi-leggenda" di Alberto da Giussano e di Barbarossa in un film manifesto all'indipendenza della Padania.


E venne il giorno di "Barbarossa". Finalmente il grande kolossal medievale italiano, anzi "italo-padano", è arrivato in sala. Cast internazionale, maestose ricostruzioni scenografiche, scene di massa e di battaglia, grandi interventi digitali, insomma un budget da capogiro per il film che Renzo Martinelli ha dedicato alla sua terra. Ma i soldi non bastano. A Martinelli manca la scintilla.
In assoluto. In tutte le fasi che il film deve superare e che il regista e produttore brianzolo ha affrontato in prima persona c'è contraddizione; e quello che giunge sullo schermo, davanti agli occhi dello spettatore è un film senza senso. Martinelli, con i capitali Ministeriali e della TV di Stato, è riuscito a dar ragione al ministro Brunetta: basta spendere i soldi dei contribuenti per finanziare velleità artistiche di questi signori che invece di lavorare fanno il cinema.

Martinelli non riesce a distinguere tra citazione cinefila e carta carbone; "Barbarossa" cerca di somigliare a "Le Crociate" di Ridley Scott, al "King Arthur" inglese con Clive Owen fino al "Robin Hood" con Kevin Kostner; neanche tre capolavori del cinema in costume che il film non riesce a sfiorare in nessun aspetto. Quello che esce è un "Elisa di Rivombrosa" con i vestiti zozzi. I dialoghi sono da fiction di prima serata, con i personaggi che si chiamano per nome anche per salutarsi “Ciao Alberto/ Ciao Giovanni/ Come stai Alberto/ Sto bene Giovanni” da far accapponare la pelle anche alla troupe di Boris mentre gira "Gli Occhi del Cuore", con i “riassuntoni” e le spiegazioni per le famose “casalinghe di Voghera” piazzati ognittanto in previsione del taglio per il passaggio TV.
Ognuno è libero di girare il film che vuole, di chiedere e ottenere soldi pubblici per farlo, di far passare per storia una semi-leggenda, di produrre un manifesto all'indipendenza della Padania. Ma deve anche sapere che dietro l'angolo c'è sempre il rischio di non riuscire. Con questo film, come detto per Brunetta, la Lega e Renzo Martinelli hanno creato un precedente che gli si ritorcerà contro; oltre a non trascinare alcuna folla, padana o terrona, il film sarà sempre preso come paragone per produrre film di regime e mi dispiace per chi ha voluto "Barbarossa", dall'altra parte del Po, c'è qualcuno che il cinema lo sa fare e dunque avrà diritto di realizzare, e realizzerà manifesti migliori.

La sceneggiatura, oltre ai dialoghi inconsistenti, non riesce a creare alcuna tensione o carattere nei personaggi; non riesce a far stare dalla parte di Raz Degan/Alberto da Giussano, malgrado vesta i panni dell'oppresso e del trascinatore di popolo e non riesce a far stare antipatici Rutger Hauer/Barbarossa o Murray Abraham/Siniscalco Barozzo, nonostante mozzino mani e orecchie senza motivo o sposino, ormai laidi e con i capelli bianchi, innocenti dodicenni o provino ad abusare di monache di clausura. I personaggi femminili, a parte uno sprazzo di carattere di Cecile Cassel/Beatrice di Borgogna moglie di Barbarossa, sono funzionali solo al matrimonio e alle storie d'amore. Servono a poco anche le visioni di Kasia Smutniak/Eleonora, amata da Alberto fin dall'infanzia, che vede il futuro in epilettici flash che la fanno additare come strega.

Nel film non c'è un attimo di silenzio, di dolore, di riflessione; è tutto urlato, tra voci fuori campo che gridano ordini e parole senza senso, nitriti di cavalli imbizzarriti (sempre al galoppo), esplosioni a tutto volume, e un tappeto musicale fisso con voce femminile, che più del "Gladiatore" ricorda la pubblicità delle merendine. Nella finale battaglia di Legnano, che arriva dopo oltre 120 minuti, i due eserciti sono vestiti quasi dello stesso colore e risulta dunque difficile distinguere i buoni dai cattivi (e come dramma vuole, tifare per uno o per l'altro), fin quando la cavalleria della Lega lombarda non scende da cavallo (perdendo così il vantaggio del cavallo) e tutti insieme tra urla, sgozzamenti e insulti vari combattono senza elmo fino alla vittoria finale della Lega; tranne uno, anzi una, la moglie ferita di Alberto da Giussano che qualcuno ha vestito da guerriera germanica e buttato nella mischia.

Gli attori bravi e famosi fanno quel che possono, gli altri lo stesso e si vede. Si vede perché benché sia ambientato intorno al 1160 ogni interno è super illuminato da decine di candele; il palazzo reale (e va bene) o la casetta nel bosco sono invase da mucchi di candele accese, oggetti che, essendo di costosissima cera d'api, potevano permettersi solo i grandi signori, mentre nel film sembrano essere arrivate col tir a casa di tutti.
Per concludere invito tutti gli spettatori, credenti e non, padani e non, a dedicare una preghiera alla povera detenuta innocente, incappucciata e bruciata sul rogo al posto della moglie di Alberto da Giussano.

08/10/2009, 14:39

Stefano Amadio