Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
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Sara Lucarini  (29/04/2008 @ 17:03)
Semplicemente un film spot. Girato tutto intorno a un telefonino e una marca telefonica, con cui fare foto e inviare messaggini. Per il resto è noia.
Battista Passiatore  (24/11/2006 @ 00:00)
Verdone e Muccino si sono incontrati sul set dì "Manuale d’Amore" e, complice Aurelio De Laurentiis, hanno sceneggiato una storia di confronto/scontro generazionale. I due protagonisti girano l'Italia e l'Europa, scontrandosi per le loro divergenze e misurandosi con le loro somiglianze. Il film racconta la storia di Achille De Bellis, top manager di un'importante catena alberghiera di proprietà di sua moglie Gigliola e di suo cognato Guglielmo, che sembra aver avuto tutto dalla vita; una bella casa, un buon matrimonio e una solida posizione sul lavoro. Ogni certezza viene travolta dall'incontro con uno "sbandatello" di 23 anni, Orfeo, che vive in un quartiere popolare di Roma e come i suoi amici non coltiva grandi ambizioni, ma si trascina in un'esistenza fatta di lavoretti precari e pomeriggi consumati in chiacchiere inconcludenti. Non ha mai conosciuto suo padre ed è cresciuto in fretta, costretto a prendersi cura di Annarita, sua madre, una donna instabile che passa frequentemente dalla depressione all'euforia. Quando Achille licenzia Annarita per furto, Orfeo, convinto che sia stata accusata ingiustamente, decide di vendicarla e inizia a seguire Achille per scoprirne le debolezze e rovinargli l'esistenza. Carlo Verdone, (che torna così alla regia), e Silvio Muccino, hanno scritto insieme una storia di confronto/scontro sociale/generazionale, tema che fin'ora ha fatto la fortuna di entrambi. In questo caso, sembra quasi che Verdone intenda passare il testimone e traslare la sua esperienza al più giovane dei fratelli cineasti Muccino, che dopo aver fatto l'attore e sceneggiatore, in futuro si proporrà sicuramente anche dietro la macchina da presa. Due carriere ben diverse per i due, ma per alcuni versi riconducibili agli stessi denominatori comuni: Roma come inconfondibile sfondo delle loro storie, personaggi sempre buffi e impacciati, che si riscattano dopo mille peripezie, difetti fisiognomici e mimiche accentuate che caratterizzano i loro personaggi.
Fabrizio L. Lago  (17/03/2006 @ 00:00)
"Il Mio Miglior Nemico" è un film ibrido, una commedia brillante che nasce da un dramma profondo, e questa è forse la forza ed allo stesso tempo la debolezza dell’opera. Il dramma che si consuma è quello del disfacimento della famiglia, (tema frequentemente trattato da Verdone), alla base di tutte le avventure dei protagonisti. Achille si rovina con le sue mani, per colpa del tradimento perpetrato ai danni della moglie, che sembra aver sposato più per interesse che altro, lei è infatti una ricca ereditiera, compromettendo sia il matrimonio che la sua carriera professionale. Cecilia, la figlia, è una persona emotiva ed instabile, che soffre di un forte disagio esistenziale, dovuto all’assenza della figura paterna, e per fuggire da questa si rifugia all’estero, dove esprime in modo artistico il risentimento nei confronti di Achille. Orfeo invece è uno che lotta per tenersi quel poco di affetti familiari che gli rimangono: la madre, una tossicodipendente plagiata da un cinico amante, che non riesce a trovare un equilibrio nella vita, si appoggia al figlio in modo totale ed è causa, con una menzogna svelata quando è già troppo tardi, dello scontro con Achille. Ognuno dei personaggi ha quindi una realtà familiare da cui scappare, un nucleo di affetti da ricostruire. Su questa base si inizia un viaggio di ricerca, che sembra quasi un ritorno, sia per i luoghi che tocca, parte del passato di Cecilia, sia per eventi e persone coinvolti. Un messaggio traspare piuttosto chiaramente come morale della storia: l’istinto familiare spesso si tramuta in semplice superficialità. Alla base di molti errori c’è questa tradizionale sicurezza genitoriale che nell’educazione porta a trascurare cose importanti; significativa in questa luce la battuta di Verdone “Un padre le sente, le sente certe cose!”, che viene ripetutamente smentita dagli eventi. Questa ibridazione fra dramma e commedia, di cui accennavo all’inizio, porta però a risultati non sempre positivi, almeno a mio parere: il primo tempo, quello in cui si consumano le tragedie familiari, mi è sembrato poco convincente. Ad un film che vuole farci ridere si possono perdonare molte imprecisioni, la logica di certe azioni passa in secondo piano, ma se viene adottato un registro tragico le cose cambiano: ecco che i conti devono tornare, lo spessore di vicende e personaggi deve sentirsi. Verdone e Muccino, secondo me, si soffermano troppo sul dramma, continuando ad usare il registro di una commedia comica: avrebbero forse dovuto dare meno rilievo a questi lati della storia, lasciarli solo a pretesto di tutte le vicende successive. Fra l’altro, sebbene nella recitazione si siano notati dei miglioramenti, la prova drammatica del Muccino attore è carente, mentre è magnifica l’espressività sul primo piano di Verdone, con tutti i suoi tic nervosi rende il personaggio magnificamente. Il primo tempo paga questa pecca dunque, il secondo invece è molto divertente: serie di scenette simpatiche, battute irresistibili, trama che scivola via semplice e sicura, Verdone ricorre alla sua vena comica in modo massiccio ed è ben supportato da Muccino. Unica nota stonata il personaggio dell’artista anglofono che si presenta alla ricerca di Cecilia: troppo stereotipato ed una trovata narrativa piuttosto scadente, per come è stata inserita, ma nel suo contesto è perdonabile. Nel complesso comunque un film che si può giudicare ben riuscito. Una collaborazione positiva quella fra Muccino e Verdone, che si spera possa portare altri buoni frutti al cinema italiano.

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