Note di regia di "Un giorno in più"
Quando ho immaginato Un giorno in più, ho sentito subito che stavo entrando in un luogo sospeso: non del tutto sogno, non del tutto realtà, ma una zona limite in cui il tempo si piega su se stesso, e l’identità — la mia, quella dell’altro — diventa fragile. In quel piccolo quadrato di proiezione, ho costruito un teatro dell’anima, dove la vita non è solo vissuta ma rivissuta, ricordata, sperata e temuta.
Il tempo secondo Seneca e la lente del cinema
Penso spesso a Seneca — al suo De brevitate vitae, al decimo libro dei Dialoghi — e a come dice che la vita non è breve, siamo noi che la rendiamo tale con il modo in cui la sprechiamo. In questo cortometraggio, il tempo non è solo un dato cronologico, ma un’entità fluida, che si allunga e si accorcia, che si stratifica con i ricordi e con le attese. È come se ogni flashback, ogni salto nell’anima dell’io protagonista, fosse un piccolo assalto contro la nostra memoria, un tentativo di rubare al nulla un istante in più.
C’è una scena che ricordo bene: la clinica “Temporary Road”, con Elemire—l’uomo anziano che, dalla quiete del presente, si immerge in frammenti del passato. Quei frammenti non sono mai semplici nostalgie: sono scelte, identità che forse non siamo stati, rimpianti confessati o ancora sommessi. Collaborando con Francesca Scaglione e Filippa Gracioppo, ho scelto di trattare il tempo temporale (quel fluire degli orologi, dei giorni che passano) insieme al tempo morale, al tempo interiore che pesa di più.
Nel mio sguardo, risuona molto anche l’immaginario del cinema: Lynch, Bresson, ma pure la delicatezza esistenziale di certi paesaggi interiori che solo un cinema “poetico” sa catturare. Dal surrealismo all’attenzione quasi mistica per l’oggetto — la luce dorata di un tramonto, la riva di un lago, oggetti simbolici — tutto appare calibrato per evocare quanto siamo contingentati dall’effimero.
L’impermanenza
Impermanenza: nel cortometraggio la avverto non come un concetto filosofico lontano, ma come una presenza palpabile. È nelle identità che si sostituiscono, nei passaggi di tempo, nei sogni che sembrano reali, e nella consapevolezza che ogni vita declina verso la fine inevitabile. Non ci dimentichiamo che niente è statico: nemmeno il sé che pensiamo di conoscere.
C’è un momento in cui appare una donna dedita alla meditazione, al raccoglimento ascetico: la sua presenza introduce uno spazio di silenzio, di sospensione, che contrasta con la densità del restare, del dover ricordare, del rimpianto. Quel silenzio assomiglia a quelli che si trovano nei film di Tarkovskij o nelle pause di Bergman, dove il tempo si congela, e in quella immobilità capiamo l’ineluttabile ciclicità dell’esistenza umana.
Fabio Bagnasco