ALICE NELLA CITTA' 22 - "Still Here"
È difficile scrivere di
Still Here, opera seconda del regista srilankese
Suranga Deshapriya Katugampala: difficile perché questo film è al contempo ricco e rarefatto, molto semplice e molto complesso.
Se la trama presenta una fabula apparentemente esile e con pochi snodi drammatici, la costruzione del racconto si palesa invece come meditata elaborazione di temi importanti, specialmente alla luce del background del suo autore, ormai da diversi anni attivo in Italia dove ha diretto già alcuni spot pubblicitari, diversi cortometraggi e il lungo intitolato
Per un figlio.
Still Here è un’opera indubbiamente non facile, addirittura criptica in certi momenti: più di uno spettatore lamenterà l’eccessiva lentezza e la scarsità di dialoghi. Ma in un contesto di alienazione sociale, di povertà, di complicati rapporti personali non è forse l’assenza di comunicazione una costante?
L’integrazione (o piuttosto la sua mancanza) dei singoli all’interno di una comunità o di un nuovo ambiente e l’integrazione (o mancata tale) di un’intera comunità nel tessuto sociale maggioritario rappresentano il trait d’union che unisce le storie raccontate in questo film, un racconto girato con sguardo documentaristico che esplora quartieri e città ma anche varie tipologie di relazioni umane.
Seguendo i suoi personaggi e le loro interazioni con gli spazi in cui si trovano a vivere,
Still Here assume anche i connotati di una fotografia o di una testimonianza del cambiamento urbano e sociale che avviene quando il nuovo subentra al vecchio, quando la modernità soppianta la geografia preesistente.
Se un nuovo insediamento urbano (pubblicizzato in un volantino con la descrizione “
A happy place called Home – A city in the heart of the silk road”) viene sapientemente messo in relazione dal regista con le immagini del cantiere che lo sta realizzando (esteticamente bellissime ma ricche di ombre e sfumature, non solo figurative ma anche etiche), la contropartita è la distruzione del quartiere dove vivono altri protagonisti del film. Il fatto poi che i due eventi accadano in città diverse aumenta la potenza visiva e ideologica dell’opera, come un butterfly effect che collega luoghi, persone e vite in un ciclo di creazione e distruzione.
I musicisti del Nuveau Port cantano l’ultima canzone prima della demolizione; la ruspa abbatte i muri; le comunità perdono i propri punti di riferimento. “La città ci sta divorando” – si dice – e l’insostenibile pesantezza dell’esistenza affligge le vite di uomini e donne variamente alla ricerca della loro identità, talora persa nel passato: nelle immagini di vecchi film, o in ricordi alla ricerca dei quali si emigra in altre città, in altri Paesi, magari lasciandosi alle spalle due figli. Il film crea così un ideale collegamento tra Milano e Colombo: lì si distrugge, qui si costruisce, sempre in nome del tecnologico, del sostenibile, delle nuove avanguardistiche idee sulle città vivibili e intelligenti.
Ma il prezzo da pagare è alto e il lavoro di Katugampala (che merita di essere conosciuto anche per le sue video-installazioni) indaga i tentativi di sopravvivenza che l’individuo cerca di mettere in atto per restare a galla: le vite dei personaggi di
Still Here sono vite “rotte”, miserabili, in cui però uno spiraglio di speranza fa capolino da dietro una recinzione, dallo schermo di un cellulare che riproduce fuochi d’artificio, dalla soglia di un portone lungo la quale l’amicizia vince la paura dell’ignoto.
25/10/2024, 08:39
Alessandro Guatti