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FdP 57 - CLAUDIO CASAZZA: "Ho cercato di demostrificare i mostri"


FdP 57 - CLAUDIO CASAZZA:
Autore del film scelto per aprire il Concorso Internazionale della 57a edizione del Festival dei Popoli, in "Un altro me" Claudio Casazza cala lo spettatore in una realtà poco conosciuta e scarsamente raccontata dai media, quella dei condannati per reati sessuali.

Per la prima volta il cinema italiano cede la parola ai "mostri", cercando di scavare a fondo e rintracciare uno spiraglio di umanità.
Casazza ha raccontato a Cinemaitaliano.info il lavoro che sta dietro alla realizzazione di un documentario robusto ed eticamente importante.

Non era facile trovare la giusta distanza tra la macchina da presa e i detenuti, così come non era semplice costruire un film mantenendo la sfocatura sui volti dei protagonisti. Ci sei riuscito, e alla grande. Come hai raggiunto questo equilibrio?
Partivo da una costrizione, dall'obbligo di non inquadrarli, quindi mi sono interrogato su come procedere. Mi piace credere che quando si hanno dei limiti si può essere più creativi. Ho visto alcuni lavori di altri registi che hanno fatto film con dei limiti di questo tipo, ad esempio Avi Mograbi nel suo "Z32", in cui racconta storie di violenza di soldati israeliani su cittadini palestinesi, aveva ripreso i volti e poi era intervenuto digitalmente in vari modi, con la sfocatura e gli occhi a fuoco, il bollino nero e la sfocatura totale. Volendo intervenire in postproduzione quindi i metodi erano svariati, ma ho preferito fare diversamente, sono partito da una questione etica nei confronti dei detenuti e ho preferito palesare fin da subito il modo in cui li avrei inquadrati. Molto spesso mi chiedevano di rivedere il girato, soprattutto all'inizio delle riprese, e mostrare loro un'immagine a fuoco probabilmente avrebbe rotto quel tipo di relazione che si era instaurato. L'altro problema era cosa inquadrare, quindi non avendo a fuoco i detenuti dovevo avere a fuoco gli psicologi. In quel caso ho voluto stargli molto addosso, utilizzando solo due obiettivi, perchè ciò che raccontavano era molto personale.

Le parole di quegli uomini trasudano rabbia, dolore, verità. Sei riuscito a cogliere un'umanità dietro alle maschere da lupo cattivo, qualcosa che si ottiene solo se ottieni la totale fiducia. Come te la sei conquistata?
L'approccio è stato quello di conoscere tutti il meno possibile. I criminologi mi avevano un pò raccontato del loro lavoro, ma non avevo voluto sapere i dettagli per poter mantenere uno sguardo più aperto. Lo stesso vale per i detenuti, perchè conoscere a fondo le loro storie mi avrebbe portato in un vortice di pregiudizi e in questi casi la fiducia deve essere ben delineata, fin dall'inizio.
Andavo a bere il caffè in cella con loro e rimanevo a chiacchierarci, perché credo che fosse quella la chiave giusta per raggiungere la loro fiducia, provare in qualche modo a demostrificarli. Il mio obbiettivo era restare il più possibile aperto, senza avere già delle sentenze in mano. E volevo che questo atteggiamento si riflettesse nel film.

Una scelta di regia "asciutta" la tua, in cui neanche per un istante compare una nota musicale o una voce calata dall'alto. Era giù tutto nella tua testa o hai intrapreso questa strada entrando in contatto diretto con quella realtà?
Era una scelta ben precisa, volevo intraprendere la strada del documentario di osservazione alla Wiseman, è sempre stato un mio punto di riferimento per il documentario anche se non avevo mai fatto un film di osservazione. L'obiettivo era stare il più possibile dentro allo spazio di dialogo, sapendo poco di ciò che riprendi e non utilizzando nulla di extradiegetico. Non c'è voce off, presenza dell'autore, nulla di mediato. Ovviamente non ho ripreso la realtà così com'è, dico una cosa banale ma la telecamera c'è e si “sente” sempre, non esiste la realtà così come è ma è una trasposizione, sempre. Ma paradossalmente la telecamera la sentivano maggiormente gli psicologi e i criminologi rispetto ai detenuti, perchè gli ultimi avevo avuto modo di conoscerli di più, li vedevo ogni volta che andavo lì, anche di più rispetto agli operatori.

Sei stato molto a contatto con i detenuti, sia prima di iniziare a girare che nel periodo delle riprese. Credi la presenza della macchina da presa abbia influito sul loro modo di "mettersi a nudo"?
Qualcosa in effetti cambia. Quando ho assistito ai primi gruppi senza la presenza della macchina da presa, mi sono accorto che ognuno di loro cercava di emergere, forse anche un po' di messa in scena di loro stessi veniva fuori. Credo che il mezzo cinematografico tenda ad eliminare quella "finzione", perché più di rapporti ad esso e più sei portato ad essere sincero. Ma forse il motivo principale è che parlavano di cose personali, scavavano dentro le loro vite, dentro quello che avevano fatto, e così facendo si liberavano dalle maschere che loro stessi si erano messi.

La famiglia è un elemento importante, che traspare dai loro racconti ma che decidi di non mostrare. E' un'ipotesi che avevi mai preso in considerazione?
E' stata più che altro una scelta di campo, un campo che quando cerchi di fare documentario di osservazione è importante delineare, delimitare. Lavorare sul rapporto con la famiglia era certamente una delle ipotesi, così come un'altra era il rapporto con le guardie penitenziarie o la vita solitaria nelle celle. Ma ho deciso di non aprire tutti questi possibili argomenti, mi avrebbero sviato dal focus del film, il percorso che loro fanno su stessi è talmente denso che era importante delimitarlo e non perdersi in un contorno indefinito. Ciò che mostro, anche le lezioni di yoga o la partita a pallavolo fa parte di questo percorso. Inserire i genitori o le mogli avrebbe aperto un'altra strada che mi avrebbe spinto a pormi una serie di interrogativi collegati. La famiglia è comunque presente nei racconti, ma tutto funziona di derivazione. E forse è proprio questa la cosa più importante, far venir fuori qualcosa girandoci attorno.

26/11/2016, 14:11

Antonio Capellupo