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Dal carcere, nel carcere, per il carcere


Il cinema italiano trova ispirazione e talenti in ambito carcerario: non solo "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani


Dal carcere, nel carcere, per il carcere
Pare che l’articolo 27 della Costituzione reciti così, in materia carceraria: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Pare, perché le condizioni delle prigioni e dei prigionieri (detto letteralmente, ma anche in senso metaforico) a tutto fanno pensare tranne a “preamboli” di rieducazione: a dire il vero, negli ultimi tempi solo il cinema in Italia sembra provare - in qualche modo - a dare una nuova chance a chi è dietro le sbarre...

Basta qualche notizia, senza dover neanche cercare troppo in là: i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno girato lo scorso anno un film interamente dentro al carcere di Rebibbia, “Cesare deve morire”, utilizzando gli attori-detenuti formati dal lungo lavoro del direttore artistico del carcere Fabio Cavalli. Sei mesi di prove e di provini, risultato: Orso d’Oro a Berlino 2012 per il film, primo triondo italiano da oltre vent’anni.

Salvatore Striano, che di quel film è tra i protagonisti nel ruolo di Bruto, è diventato una (piccola) star: Giovanna Taviani sta girando su di lui il mediometraggio "Sasà. Il riscatto", un ritratto su di lui e la sua storia di redenzione. Otto anni di carcere nel suo passato, piccoli ruoli (era in "Gomorra", "Napoli Napoli Napoli", "Fortapasc", "Gorbaciof"), poi il successo coi Taviani, una apparizione nella serie tv "Il clan dei camorristi" e ora è sul set di un nuovo film, "Take Five" di Guido Lombardi.

A questi film va aggiunto per lo meno “Il Gemello” di Vincenzo Marra, presentato a Venezia 2012 e vera storia - tra documentario e fiction - di Raffaele detto "Il Gemello", detenuto nel carcere di Secondigliano.

E poi, tornando indietro di pochissimi anni, è da ricordare l’importante operazione realizzata da Davide Ferrario all’interno del carcere Le Vallette di Torino per il suo “Tutta colpa di Giuda”, girato con la partecipazione nel cast di molti detenuti e di alcune guardie carcerarie e ambientate interamente nella prigione.

E poi non dimentichiamoci di Aniello Arena, acclamato protagonista di “Reality” di Matteo Garrone, Gran Premio Speciale della Giuria lo scorso anno al festival di Cannes. L’attore ha rischiato di vincere un premio personale sulla Croisette per quella interpretazione, ma non ha potuto presenziare alla prima né alla conferenza stampa francese.

Nel 1991 Arena è stato condannato per omicidio, oggi sconta l’ergastolo ma fa l’attore di giorno e a mezzanotte torna in prigione. Ed Vulliamy del Guardian lo ha incontrato in questi giorni, e le parole tratte da quell’intervista dicono molto del potere che il cinema può avere nel percorso di rieducazione: “Non mi sento prigioniero solo perché dormo in carcere. Sta tutto nella testa: quella che chiamano realtà, la libertà, tutto è nella testa, nella mia testa. E nella mia testa sono libero”.

(originariamente pubblicato su Linkiesta)

22/02/2013, 11:36

Carlo Griseri