Note di regia di "Albatross"
Ci sono storie che non gridano, eppure lasciano un’eco. “Albatross” è una di queste. Ho incontrato la vicenda di Almerigo Grilz sei anni fa: un giornalista inviato di guerra caduto durante un reportage. Da subito ho sentito che raccontarla avrebbe significato addentrarsi in una materia complessa, stratificata. Ma è stata proprio quella complessità ad attrarmi. Ho iniziato a accogliere immagini, filmati, scritti, testimonianze. Ho lasciato che fossero i materiali stessi a guidarmi. Soltanto molto dopo sono arrivate le parole dell a sceneggiatura, e quattro anni più tardi ero sul set.
Fin da subito sapevo che non volevo farne un semplice biopic, ma provare a restituire un po’ dell’aura di qualcosa di più essenziale: il tempo. Quel tempo che consente di sbagliare, ma anche di cambiare. Quel tempo che Grilz non ha avuto.
“Albatross” non vuole essere né un ritratto celebrativo né un atto d’accusa. È un tentativo di avvicinarsi alla vita di un ragazzo attraversando i contrasti della sua epoca: gli anni Settanta della tensione ideologica e gli Ottanta del disincanto. In quei decenni contraddittori Almerigo Grilz cercava un posto in prima fila nel mondo pagandolo a un prezzo altissimo. Ho approcciato quegli avvenimenti senza tesi precostituite, lasciando spazio al dubbio: il cinema può ancora offrire un varco, non tanto per spiegare, ma per restituire uno sguardo molteplice sui diversi punti di vista e far emergere ciò che può sfuggire ai racconti convenzionali. Questo film prova a inserirsi quindi nel solco di un genere che ho sempre amato profondamente: il cinema sul giornalismo. Da “Tutti gli uomini del presidente” a “The Insider”, da “Good Night and Good Luck” a “Spotlight”, il cinema ha saputo raccontare il mestiere del cronista come ricerca, rischio, scontro etico. “Albatross” prova ad appartenere a quella famiglia: storie in cui fare informazione non è solo un mestiere, ma un atto esistenziale, una lente per osservare il mondo.
“Noi siamo testimoni, non siamo tifosi” ha detto in un’intervista Giovanna Botteri, una grande inviata speciale. Ecco, mi piacerebbe che questo film fosse un invito alla sospensione di giudizio.
Uno stimolo a prestare sincera attenzione a chi ci sta di fronte. Anche e soprattutto a chi la pensa diversamente da noi. Perché forse solo così possiamo sottrarci alla fretta delle opinioni, all’impoverimento del pensiero, alla gabbia delle appartenenze.
In un tempo come il nostro, segnato da polarizzazioni aggressive, ritengo sia proprio la capacità di ascoltare l’altro da noi l’unica rivoluzione ancora possibile.
Giulio Base