Note di regia di "Marko Polo"
Come si rappresenta l’irrappresentabile? La fede, il Mistero, Dio, ma vale anche per l’amore, la radicalità di certe idee, una convinzione politica. E che tono dare a una storia in cui al posto della trama si mette un periodo della vita? "
Marko Polo" è una riflessione sul successo e sul fallimento, e ha a che fare con Dio ma soprattutto con la vita, e il suo racconto. È stata un’impresa imprevedibile, a tratti spontanea, a tratti chirurgica, scritta e non scritta. È un film che si è costruito nel tempo, per accumulo di questioni e vita, che nasce dalla realtà e però se ne libera chiedendo alla sua rappresentazione di dare dignità ed “eternità” a un momento che verrebbe altrimenti dimenticato, anzi rimosso: quello, appunto, del fallimento. Che poi fallire non è il contrario di succedere, mentre fallimento e successo li usiamo sempre come contrari…
"
Marko Polo" ha due linee narrative, il presente – un viaggio notturno in nave – costretto in una prepotente unità di luogo, e poi c’è il passato, ampio e vago. Un tempo che è venuto prima, o che forse non è mai venuto, fatto di ipotesi e schizzi di film via via scartati, corrispondenti a modi di credere, e vivere, via via superati. La difficoltà è stata adattare un genere letterario, l’autofiction, al racconto per immagini, cercando di restare universali ma sempre legati a una certa sincerità; e quindi anche essere dentro e fuori il film, recitando un personaggio simile a me, ma che non sono io. Il risultato è un viaggio reale e psichico nel processo di costruzione e distruzione e ricostruzione (continui) di una storia, che pare sempre sul punto di evaporare.
Elisa Fuksas