L'INFINITO - Sillabario, turning point o seduta psicoanalitica?
Siamo in un sonnolento pomeriggio romano, quando due premi Oscar si sentono al telefono per parlare di trame, di film. I cineasti lavorano così, parlano molto, poi scrivono, spesso pochissimo. I due sono amici da anni e hanno scritto insieme tante pellicole indimenticabili. Uno di questi due è il regista
Paolo Sorrentino, l’altro è un vagabondo letterario, un flâneur di altri tempi che risponde al nome dello sceneggiatore
Umberto Contarello.
Sorrentino propone a Contarello di girare un film come regista e gli dice che glielo vuole produrre. Contarello all’inizio rimane spiazzato per un po' di tempo, poi ci lavora sopra. Oggi finalmente siamo a parlare proprio di quella storia;
l’Infinito, luminoso esordio alla regia di Contarello nel film a soggetto, se si esclude l’esperimento narrativo Parole. Operetta per Voce e Piano del 2021. L’esordio dello sceneggiatore di Sorrentino è un oggetto sfuggente ed inclassificabile, dentro il quale si fondono il Goffredo Parise dei Sillabari, la malinconia dei primi film di Kaurismäki e di Jarmusch e “l’incertezza vagabonda del puglie stonato”.
Fotografato in un bianco e nero, pacato e metafisico da
Daria D’Antonio, che ci consegna delle scene precise ed eleganti, ci riporta alla mente
Stranger than Paradise del già citato Jarmusch. Dunque da subito ci lasciamo andare al tempo tutto interiore della trama. Le inquadrature sono fisse, molti interni, l’ossessione per l’autore per le scale e il buon bicchiere di Martini, con la sigaretta sempre accesa.
Contarello è uno degli sceneggiatori più filosofici del cinema italiano e in questo lavoro raggiunge il suo massimo, con echi di ossessioni sorrentinane, come la suorina nel convento che pulisce i vetri delle finestre col giornale e con un’ ironia nera e diretta che esplode nei dialoghi con l’agente di “Umbe”.
La colonna sonora è affidata a
Danilo Rea, una specie di alter ego musicale di Contarello, con il quale cerca da anni la melodia giusta per le sue immagini, anche con readings, letture live e improvvisazioni tra testo e suono. L’Infinito è infatti un film minimalista e musicale, nel quale la trama procede per quadri, sospensioni e anche improvvisi scarti comici.
Un pensiero sulla scrittura del copione va anche all’”autofiction” di
Emmanuel Carrère, prosa nella quale lo spettatore entra ed esce dalla vita dello scrittore, con sempre la solita domanda: “Ma questa è la sua vera vita o è solo letteratura”? Mi hanno commosso in particolar modo due scene di questo splendido “cinema da camera”. La prima quando Umbe si mette a vedere in tv un filmato del padre, Agostino Contarello, grande attore padovano, interprete di molti memorabili arlecchini.
Nel film il Contarello figlio e artista, sembra quasi riconciliarsi e riunirsi con la figura paterna, sedendosi sul divano del salotto di casa e indossando una maschera, illuminata dal baluginio delle immagini del padre sullo schermo. La seconda scena che non si scorda, per giorni, dopo la visione del film è quella in cui il protagonista pone delle domande alla madre sulla sua tomba.
Ogni frase è un coltello nell’anima, una prova che quella che ci racconta il neo regista Contarello, è vita vera, dolorosa ma sempre da vivere. Magari con un Martini in mano e la sigaretta accesa, in attesa dell’unica certezza; la morte di noi che ora siamo figli e padri.
15/05/2025, 08:21
Duccio Ricciardelli