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STANLEY AND US - Un estratto dal libro ArtDigiland


STANLEY AND US - Un estratto dal libro ArtDigiland
Introduzione alla nuova edizione
di Federico Greco


Avevamo più o meno trent’anni. Era un’altra vita e intorno a noi c’era un altro mondo. Stanley era ancora vivo. Tornare a scrivere su quel tempo e ripercorrere le rocambolesche tappe di quell’avventura fuori dall’ordinario non è facile. Insieme a noi, seduti alla scrivania a tentare di ricordare le emozioni e l’atmosfera di quei cinque anni irripetibili, ci sono alcuni fantasmi. Ognuno di loro ci sussurra la sua versione, la prospettiva dalla quale vede ciò che è successo. Chi quella esistenziale, chi quella professionale, chi quella meramente cinematografica. Scrivere di allora significa fare il punto su noi stessi, “nominare il drago” come direbbe Jung o chi per lui. Cosa ci ha spinto a farlo? Cosa immaginavamo sarebbe diventata la nostra vita? Sarebbe stato, quello del regista, il nostro mestiere? Ma soprattutto: perché credevamo fosse possibile fare un film su Stanley Kubrick, visto che tutti ci avvertivano del contrario? A quest’ultima domanda non siamo ancora in grado di rispondere con certezza. Ma è probabile che valga ancora ciò che rispondemmo a una giornalista del quotidiano La Stampa quando ci intervistò in occasione della partecipazione del docume tario al Festival di Torino, nel 1999: perché eravamo ingenui. C’è un’altra questione, questa sì davvero ancora irrisolta. Se fossimo riusciti a incontrare Stanley e quindi a intervistarlo, che cosa gli avremmo chiesto? Quando cercavamo di buttare giù le domande per quell’eventualità, per molto tempo ci è girata in testa un’idea. All’inizio era poco più di una boutade, poi è diventata l’unica scelta possibile.

«Immagina che Stanley ci dia appuntamento nella sua villa di St Albans. Noi andiamo, telecamera accesa. Suoniamo il campanello per farci aprire il cancelletto che conduce all’ingresso sul retro. Ci avviciniamo. La porta si apre e davanti a noi compare Stanley Kubrick. A questo punto, a sorpresa: nero, e titoli di coda.» Può sembrare un’idea bizzarra, e anche stupida. Ma forse è quella che più riconosce le vere intenzioni che ci hanno spinto a fare il film: esorcizzare un’ossessione. Uccidere il padre. Liberarsi dell’angoscia dell’influenza, come la chiamerebbe Harold Bloom. D’altronde che cosa mai potreste chiedere all’uomo che ha forgiato i vostri sogni (o incubi), e che ha influenzato così in profondità il vostro modo di guardare la realtà? Per spiegarci potremmo usare la riflessione cardine dell’intera letteratura lovecraftiana: “Non c’è nulla di più misericordioso che l’incapacità della mente umana di mettere in correlazione tutti i suoi contenuti”. Davvero volevamo, insomma, che Ku brick rispondesse alle nostre domande? Davvero volevamo che si smascherasse, che il monumento che gli avevamo fatto si sgretolasse nella nostra mente come nel finale de Il villaggio dei dannati? Ma poi, diciamocelo con franchezza, cosa avremmo potuto chiedere di sensato a uno dei più grandi artisti di tutti i tempi? “Qual è il significato di 2001” (sentiamo già David Lynch ridere di gusto)? “Perché hai fatto cinema?” “Come sei riuscito nell’impossibile sfida di portare sullo schermo Lolita?” Sapete che c’è? Meglio non saperlo.
In ogni caso, scrivere oggi della nostra avventura, a distanza di più di venti anni, ha più di un senso. Molti ragazzi non possono rendersi conto di quale fosse, all’epoca, l’atmosfera che circondava Stanley. È difficile per un millennial comprendere l’emozione che nasceva dall’intraprendere una sfida simile: diventare protagonisti di una chanson de geste alla ricerca del Sacro Graal. Perché questo è stato, anche se ne siamo pienamente consapevoli solo oggi, che abbiamo “riportato a casa l’elisir”. Chi più, chi meno.

Dopo essere stato trasmesso da Raisat Cinema, il film di un’ora, nelle sue diverse versioni, ebbe un grande successo nelle decine di proiezioni cinematografiche in tutta Italia. Al Detour, una sala indipendente al centro di Roma, l’esercente fu costretto a raddoppiare la programmazione e a cercare nuove sedie. C’era tanto pubblico che il nostro ricordo è quello di “gente appesa ai lampadari”, o almeno è così che lo raccontiamo oggi. Quando ci videro entrare esplosero in un fragoroso applauso. Interminabile, tanto che fummo costretti a dire, tra il serio e il faceto: «Ma non avete ancora visto il film!». Quell’entusiasmo a prescindere, che aveva tutto l’aspetto di quello che si tributa a un divo hollywoodiano, non era diretto a noi ma al fatto che qualcuno avesse fatto qualcosa che, come abbiamo detto, all’epoca pareva impossibile. Era diretto alle loro stesse ambizioni non soddisfatte, era un modo per accarezzare le loro paure e i loro fallimenti più profondi. «Ho pensato continuamente a me che cerco di conoscere Bob Dylan» ci disse una persona del pubblico una volta «e non ho smesso di piangere per tutto il film». Intorno a Stanley and Us c’era, in quei mesi, un’eccitazione paragonabile a quella che ci sarebbe stata nei confronti di un bambino di dieci anni che avesse messo piede sulla Luna. Narrativamente parlando la forbice tra il punto di partenza, “tre inesperti mangiaspaghetti”, e l’ambizione, intervistare Stanley Kubrick (che per molti, appunto, era come andare sulla Luna), ha decretato il successo dell’intera operazione. Soprattutto perché alla fine ne è venuto fuori un documentario monstre, composto dal film più 38 episodi da 15’. All’inizio non ne eravamo consapevoli, ma decidendo di impostare il documentario non come un classico biopic bensì come una vera e propria narrazione che inglobava gli stessi narratori, e dunque di raccont re le vicende di noi tre che tentavamo dal nulla di incontrare Kubrick, stavamo rispettando pienamente una delle regole del Viaggio dell’Eroe di Campbell, per come la applicò, per esempio, Lucas al suo Star Wars. Nella prima stesura della sceneggiatura il protagonista si chiamava Starkiller, nome di cui Luke si vantava, e veniva descritto da Lucas come “un contadino con ambizioni eroiche”. In quella definitiva del 1976, che poi sarebbe stata usata sul set, Luke diventa, più modestamente, un ritroso e insicuro “Skywalker”: Lucas decise di strappargli qualunque aurea di eroismo, raccontandolo come un ingenuo, inconsapevole adolescente impaurito. Eppure ciò che farà Luke, distruggere “l’arma fine di mondo” dell’Impero e arrivare a capeggiare la Resistenza, rimase un obiettivo fermo nella storia. Lucas aveva così allargato la forbice tra punto di partenza e punto di arrivo. Insomma, più le armi di Davide sono miserabili (un sasso e una fionda) e più Golia è gigantesco e minaccioso, più sono evidenti e solide le tre colonne proprie di una narrazione coinvolgente, che Aristotele chiamava “Pietà”, “Terrore” e “Catarsi”. In una parola, immedesimazione nei confronti dell’eroe della storia. Pietà per quei tre nessuno che credevano di compiere l’impossibile; Terrore per ciò che accadeva una volta che l’avventura era iniziata (per esempio la morte di Stanley nel marzo del 1999); Catarsi, espiazione, purificazione: in una parola: liberazione dall’angoscia dell’influenza.
Agli occhi del pubblico gli “eroi” eravamo noi tre e tutti si immedesimarono, proiettando sul nostro Graal il proprio Graal, sulle nostre fragilità le proprie fragilità. Sul nostro successo i propri successi.
Alcuni spettatori hanno commentato con argomentazioni del genere: «Mi sarei aspettato di vedere un film su Kubrick, non sui registi». Giudizio più che legittimo, ovviamente. Stanley and Us nacque più o meno consapevolmente come titolo-paracadute. Richiamava quello, ironico, del primo film di Michael Moore, Roger and Me, nel quale il regista di Flint, Michigan, tenta di intervistare Roger Smith, capo della General Motors. Non ci riesce e il documentario si risolve, brillantemente, nel racconto surreale dei motivi di quel fallimento. Esattamente ciò che è capitato a noi, seppur in modo diverso. Ma la nostra scelta aveva anche un altro senso: quella sarebbe stata la storia del nostro rapporto con Stanley, non la storia di Stanley. La sua figura ne sarebbe uscita di sponda. Ovviamente nel nostro rapporto con Stanley c’era anche tutto il suo cinema. Quello che non sapevamo era che questa scelta avrebbe trovato una ragione ancora più valida: nonostante alla fine del viaggio fossimo diventati amici della famiglia Kubrick (in particolare di Christiane, la moglie, e delle due figlie Katharina e Anya), e del suo assistente personale, Emilio, non siamo riusciti a ottenere i diritti di “utilizzo brani” dei film di Stanley. Quell’impostazione da backstage (un film su qualcuno che cerca di fare un film) ci ha aiutato quindi a creare il contesto giusto per applicare un’ulteriore idea poco ortodossa. Al posto dei brani tratti dai film di Kubrick abbiamo montato sequenze girate da noi nelle location dove erano stati girati, e quei film li abbiamo quindi solo evocati. Come sempre accade, se vedi un problema come un’opportunità e non come un ostacolo insormontabile alla fine la soluzione può rivelarsi migliore dell’idea originale. Anche grazie al fatto che il direttore italiano del doppiaggio da Arancia meccanica a Eyes Wide Shut, Mario Maldesi, ci ha concesso di utilizzare la colonna italiana dei film, che abbiamo montato sopra le nostre immagini realizzate a Beckton (Full Metal Jacket), Thamesmead (Arancia meccanica), Elstree Studios (Shining), Madame Jojo (Eyes Wide Shut)...
Su Stanley giravano, alla fine degli anni ‘90, leggende di ogni tipo, alimentate dalla sua abitudine di sottrarsi alla stampa e dal fatto che la stampa che si occupava di lui – non concentrandosi sul suo cinema ma sulla sua figura, le sue idiosincrasie – era soprattutto quella inglese, tradizionalmente scandalistica. Per questo, come leggerete anche più avanti, le circa cinquanta persone intervistate tra Italia, Inghilterra, Francia e Stati Uniti si sono lasciate andare: perché noi non eravamo la stampa in glese e ci ponevamo con grande rispetto sia nei confronti dei testimoni cui chiedevamo un ricordo di Kubrick sia dello stesso Kubrick. Ci è stato detto chiaramente da molti di loro. Finché l’ultimo giorno di riprese la dinamica si era ormai ribaltata, e fu June Randall, storica segretaria di edizione di Stanley, che aveva sentito parlare di noi a chiederci «Perché non avete chiamato anche me per un’intervista?». Centinaia di persone da ogni parte del mondo ci domandano di distribuire nuovamente Stanley and Us. Soprattutto i 38 episodi che seguirono il film da un’ora, tutti andati in onda su RAISAT CINEMA grazie all’interesse di Enzo Sallustro, l’unico a credere nel progetto tra i molti dirigenti RAI. Questo libro, e il primo episodio della nuova serie di Stanley and Us uscito da poco su ChiliTV, è finalmente il primo passo della riedizione dell’intero Stanley and Us Project cui stiamo lavorando da anni, che adesso si chiama StanleyandUs. La prima volta il libro uscì per i tipi di Edizioni Lindau, nel Natale del 2001, in un cofanetto che comprendeva anche il VHS con il film da un’ora in una versione opportunamente aggiornata alle riprese che avevamo fatto tra il 1999 e il 2001.Durante un’edizione del Festival del Cinema di Venezia ci fu uno dei soliti convegni sul cinema documentaristico italiano organizzato da qualche autoreferenziale associazione di filmmaker (le associazioni in cui professionisti si uniscono per lottare per i propri diritti sono sacrosante, ma nel cinema italiano le associazioni nascono per accaparrarsi privilegi). Si ragionava dell’ipotesi, secondo loro innovativa, di sostenere la distribuzione dei documentari italiani indipendenti attraverso l’uscita in cofanetti con libri o riviste. In quel momento il cofanetto di Stanley and Us stava vendendo 3.500 copie in soli due mesi, un’enormità per un libro di cinema firmato da tre sconosciuti. Nessuno parlò e nemmeno lontanamente citò quell’evento. Il film era stato venduto in diciotto Paesi nel mondo, oltre a essere stato trasmesso da RAISAT Cinema. Da qualche anno i diritti audiovisivi ed editoriali di tutto lo Stanley and Us Project sono tornati interamente a noi, ed eccoci di nuovo qui. Questo libro è anche un test. Se funzionerà, potrà aiutarci a trovare le risorse sufficienti per completare l’opera e offrire al pubblico internazionale tutto il materiale – opportunamente rimontato – che girammo in quei memorabili cinque anni, tra il 1997 e il 2001. Un’ultima annotazione. Rileggendo le pagine che seguono abbiamo avuto il forte desiderio di migliorare i passaggi che ci sembravano più ingenui utilizzando uno stile più maturo, che corrispondesse maggiormente alla prospettiva dalla quale scriviamo oggi. Ma alla fine ci siamo detti che in fondo si tratta di pensieri di giovani, entusiasti, aspiranti registi e che è giusto mantenerne il tono perché rispecchia le vere emozioni, acerbe quanto volete, di quegli anni.

Federico Greco

25/10/2022, 11:05