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Note di regia di "C'era una Volta la Terra"


Note di regia di
C'era una Volta la Terra
La mia terra è per me una specie di sogno, come un mito antico conosciuto attraverso i racconti di mio padre e un po’ per istinto.”
Pur parlando di “terra”, la pubblicistica (e ancor di più la narrativa) di Jovine trasmettono suggestioni legate ai sogni, ai miti e alle favole: la realtà descritta è quella di un Sud abbandonato da ragazzo per andare a studiare a Roma e lo scrittore, attingendo alla propria memoria e al vasto bagaglio di leggende e superstizioni della spiritualità contadina, la trasforma in una realtà magica e leggendaria.
Il tono favolistico dello scrittore, riscontrabile sorprendentemente anche negli articoli giornalistici scelti per il film, ha improntato anche le nostre riprese. Già durante i lunghi sopralluoghi, ci siamo resi conto che parlare di terra, soprattutto oggi, è parlare di un mondo paradossalmente lontano e sconosciuto, è sotto i nostri piedi, ma non ce ne rendiamo conto, è insieme fatto concreto e concetto astratto. Non a caso abbiamo scelto come sottotitolo un’altra frase di Jovine: “La terra è un fatto di anima”.
Avere a che fare con la terra, soprattutto in un Sud Italia minato dal dissesto idrogeologico e da un’interrotta attività sismica, è sfida contro la natura, quanto attento ascolto e amorevole osservazione dei suoi eventi, è duro lavoro nei campi, quanto “atto di fede”, nel seme, nella zolla e nel dio invisibile che presiede al mistero della germinazione.
I binomi fatto-anima, terra-sogno, favola-realtà hanno influito sulle riprese, quanto sull’accostamento delle parole di Jovine alle immagini e poi sul montaggio. Ecco allora, l’immagine di una rotoballa di fieno, ripresa durante una sequenza notturna di lavoro nei campi, trasformata nella luna piena che sormonta il campo; o la sequenza che documenta la transumanza di 300 vacche podoliche in un viaggio lungo 4 giorni raccontata come la rediviva leggenda del Ver Sacrum; o la sequenza che descrive la fonditura di una campana di bronzo, nata da un calco interrato come fosse un seme, accostata ad un antico rito di fuoco che celebra il solstizio d’inverno; o ancora le immagini di un’antica e suggestiva festa popolare accostata alle parole con cui Jovine descriveva la vita politica dei contadini nell’Italia fascista.
Maneggiando parole e tematiche risalenti agli anni del nostro secondo dopoguerra, è stato inevitabile il confronto con gli stilemi del documentario antropologico che abbiamo cercato di innovare sperimentando l’accostamento tra parole di ieri e immagini di oggi e lasciando liberamente affiorare convergenze e divergenze tra i due momenti storici.
Infine, decisiva per il tono del film, è stata la scelta di girare esclusivamente in Molise, terra natale di Jovine e regione ancora poco esplorata dalla cinematografia nazionale e internazionale; un piccolo angolo d’Italia che, mostrando una verginità selvaggia e incontaminata, riesce a trasformarsi in terra universale e, appunto, mitica, assurgendo a simbolo senza tempo di ogni terra.

Ilaria Jovine e Roberto Mariotti