Eline Powell e Robert Sheehan in "Anita B."
Il nuovo film di
Roberto Faenza potrebbe diventare un caso. Non per il film in sé, che vi sconsigliamo di andare a vedere (leggete dopo i motivi), ma per il meccanismo produttivo che rappresenta.
Quello italiano è un popolo da spremere, senza dubbio. "
Anita B." è costato
600.000 dei nostri euro da parte ministeriale,
400.000 nostri euro da parte della film commission Alto Atesina (è sì cari fratelli di lingua tedesca, anche i vostri soldi sono stati spesi), più le tasse risparmiate (non pagate) dal Casinò di Campione grazie al tax credit, più i soldi di Rai Cinema che lo ha co-prodotto. E da qui si potrebbe partire chiedendo come mai, dopo aver letto la sceneggiatura e aver parlato con il regista, quelli di Rai Cinema, che si lamentano sempre di avere pochi soldi, non lo abbiano deviato su Rai Fiction, più ricca e sicuramente più adatta per un film buono per due puntate su Rai Uno.
Ed è per questo che vi chiediamo di non andare a spendere altri 7 euro al cinema, perché in realtà il film lo avete già pagato voi, con una specie di crowdfunding obbligato, senza possibilità di scelta.
Questo è il sistema produttivo di "
Anita B.", un film tratto dal romanzo di
Edith Bruck "Quanta stella c'è nel cielo" e scritto per il "cinema" da
Faenza, dalla
Bruck, dal marito
Nelo Risi, che tutti pensavamo meritatamente in pensione, e da
Iole Masucci. Proprio la sceneggiatura è il primo punto dolente: prevedibile e retorica come solo le fiction sanno essere, con i dialoghi didascalici e, come spesso accade quando si scrive per spettatori da divano, storicamente fuori tempo, con citazioni, valutazioni e analogie che nella realtà verrebbe in mente fare solo dopo vent'anni.
Gli interpreti si dividono in due categorie, sconosciuti (forse giustamente) e televisivi. I primi sono: la protagonista Anita,
Eline Powell, con la stessa espressione dall'inizio alla fine; in lei cambia solo il trucco e l'abbigliamento, man mano più sexy.
Robert Sheehan che sembra uscire (e in parte è vero) da
Violetta, la serie Disney del momento, per carattere, movenze e voce;
Antonio Cupo, italo canadese, che speriamo solo paghi le tasse qui da noi, giusto per rientrare di qualche soldo; stesso discorso vale per l'inglese di origine italiana
Nico Mirallegro (ma credo paghi a Sua Maestà).
Poi i televisivi, non solo per il passato sul piccolo schermo ma soprattutto per la recitazione, così consapevole della presenza del pubblico che a volte sembra che siano al di qua dello schermo, ci accarezzino la guancia per convincerci di quanto sono "attori". Parliamo di
Andrea Osvart, di
Jane Alexander e di
Moni Ovadia per quel tocco di cultura ebraica che come lasciapassare funziona alla grande.
Il doppiaggio: "recitato" in inglese, il film è doppiato ma da una squadra di voci che più televisive non si può, capaci con poche frasi di catapultare in poltrona col telecomando in mano anche il più raffinato cinefilo.
La regia di
Roberto Faenza è distratta e al risparmio, riassumibile in tre scene; due (il primo approccio nella stanza e la festa ebraica) in cui sia lui sia lo spettatore perdono completamente l'orientamento, finendo per non ritrovare più gli interpreti principali della sequenza. La terza, ma in realtà sono due, è quella del cavallo, nella quale sia di notte sia di giorno l'arrivo degli attori è girato senza spostare di un centimetro la macchina da presa, malgrado sia passato parecchio tempo tra le due.
"
Anita B." non funziona, tanto che da una prima stima di uscita in 40 copie, si è scesi a 30 per la rinuncia di diversi esercenti a metterlo in programmazione.
L'aspirazione di Anita, dopo una vita di sofferenze è una: andare in Palestina e scrivere. Qualcuno, a ragione, le fa notare che "non puoi vivere di sola scrittura". Perché no, ma non andare in Palestina, vieni in Italia che c'è sempre un Ministero da spremere.
14/01/2014, 15:00
Stefano Amadio