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Alla Mostra del Cinema di Venezia la
Retrospettiva "Orizzonti 1961-1978"


Alla Mostra del Cinema di Venezia la Retrospettiva
Si intitola Orizzonti 1961-1978 la Retrospettiva della 68. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011, che sarà dedicata al cinema italiano di ricerca anni ’60-’70, e che quest’anno vuole legarsi idealmente a uno dei segnali forti di novità delle recenti edizioni della Mostra di Venezia: la riformulazione di Orizzonti

Curata da Enrico Magrelli, Domenico Monetti e Luca Pallanch, la retrospettiva Orizzonti 1961-1978 è realizzata dalla Biennale in coproduzione con il Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale, ente deputato alla promozione e preservazione del patrimonio cinematografico italiano, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Si rinnova pertanto anche quest’anno la collaborazione con la Cineteca Nazionale per la riscoperta del cinema italiano dimenticato, in ideale collegamento con le retrospettive presentate con successo a Venezia in questi anni da "Italian Kings of the B's - Storia segreta del cinema italiano" (2004) fino a "La situazione comica" (2010).

"La retrospettiva di quest’anno" – ha dichiarato il Direttore Marco Mueller - "ancorata alla sezione Orizzonti e alla sua idea di un cinema aperto e liquido che interroga se stesso come dispositivo linguistico, come tecnica capace di scandagliare e sollecitare la realtà e come forma d’arte che vuole dialogare, con feconda disinvoltura, con le altre forme d’arte, è un contributo alla ricostruzione storica dello sguardo contemporaneo".

Nuove realtà si precisano all’orizzonte dell’universo cinematografico e, spesso, sfuggono a qualsiasi catalogazione: dalla durata (in)finita di "I bambini di Golzow" a brevissimi frammenti “rapiti” da Youtube o Myspace. In tale scenario di grande fluidità di immagini, grazie anche a una tecnologia digitale ormai alla portata di tutti, la sezione Orizzonti (nella sua recente riformulazione) si è proposta di mettere a confronto stili e sguardi tra i più diversi, opere che innovano con il tradizionale supporto di celluloide e sperimentazioni elettroniche-digitali.
A questo presente così ricco e magmatico si doveva dare una memoria e sufferire, virtualmente, un passato. Creare cioè, anche attraverso una programmazione retrospettiva mirata, nuove intersezioni tra vecchio e nuovo. Si tratta, ieri come oggi, di opere che rifiutano di appartenere a un determinato campo estetico, perché troppo trasversali o eccentriche, negandosi così alle consuete denominazioni di origine controllata.

Di questa memoria "ad uso Orizzonti", un baricentro possibile potrebbe essere quello del film epocale "Anna" di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, restaurato per l’occasione. Tra i primi film a essere girato in video per poi essere vidigrafato, ovvero trasferito da nastro magnetico in pellicola, Anna, presentato a Venezia nel 1975, ha chiuso emblematicamente una stagione dove politica ed estetica erano indissolubilmente congiunti. Al film girato ha corrisposto la sconfitta esistenziale, l’incapacità di poter cambiare il corso degli eventi, in questo caso la vita della ragazza minorenne incinta, Anna.
Se "Anna" è un opera di approdo e, al contempo, una riflessione pioneristica dal punto di vista tecnico (anche perché il video consentiva di controllare in modo immediato e totale il materiale girato) i film brevi di Romano Scavolini e Mario Schifano sono il territorio seminale nel quale i due autori-artisti matureranno tecniche e poetiche per i loro lungometraggi a venire.
Il primo, sperimentando sull’immagine, contaminandola di fotografie, illustrazioni, fumetti, usando l’esposizione multipla, o passando dal positivo al negativo, ricorrendo ad un montaggio rapido con uso frequente dello zoom per descrivere temi e ossessioni a lui care: il ricordo doloroso della guerra, la solitudine, il rapporto uomo/donna.
Il secondo, realizzando dei veri e propri diari filmati, con una libertà totale di sguardo, con la stessa compulsività che lo spingeva a fotografare continuamente le persone attorno a lui, per trasformare il reale in ipotesi spaziali da mettere in “quadro”. Cinema sperimentale che incontra quello familiare, domestico, che azzera il linguaggio e che ha in questo azzeramento lo stesso valore dei suoi monocromi in pittura, per cogliere poi con la macchina da presa gesti ed espressioni inaspettate.

Gli orizzonti familiari, dove irrompono, a spezzare ogni equilibrio, il peso della Storia e le suggestioni dell’arte, sono scandagliati e ridefiniti anche da Nato Frascà, pittore (fondatore nei primi anni Sessanta di "Gruppo 1"), scenografo, regista. Più che cinema sperimentale, cinema di sperimentazione, nel quale l’artista trasforma la pellicola in un magma, dove ribollono gli echi degli anni "Sessanta (Kappa)" e "Settanta (Soglie)", filtrati in una chiave intimista e personale.

Le imprese di uno dei più innovativi gruppi artistici sorti a cavallo del ’68, il Laboratorio ’70, poi Gruppo di via Brunetti, formato da Marcello Grottesi, Paolo Matteucci e Gianfranco Notargiacomo e per un periodo dal geniale Gino De Dominicis, sono immortalate dal fotografo e documentarista Mario Carbone in "Zoomm, Track!": la ghigliottina trasportata a piazza del Popolo preannunciata dal rullo del tamburo: la rivoluzione è in atto; con i capelli tinti di rosso in sella a un tridem (bicicletta a tre posti), gesto narrato da Pasquale Squitieri sulle pagine di "Paese Sera": “In Tridem a colori”; il colore rosso all’anilina versato nella fontana di piazza del Popolo (gesto copiato in tempi più recenti).

Spesso il documentario ha rappresentato la forma ideale per liberarsi da qualsiasi gabbia funzionale narrativa. "Il respiro" e "The City" sono due ottimi esempi nei quali il documentarista Axel Rupp si libera volentieri di qualsiasi voce off per raccontare con immagini e suoni volti e corpi alla stazione di Roma Termini o alla City di Londra, preannunciando di molti anni le suggestioni visive del cinema di Godfrey Reggio.

Altro artista totalmente libero da formati ed estetiche è stato Paolo Brunatto, recentemente scomparso e al quale si rende omaggio con il suo "Vieni, dolce morte…" autentico esempio di cinema espanso, perché più che visto, il film va vissuto come esperienza mistica collettiva.

Ma l’eccentrico è trasversale e va oltre il consueto cinema “sperimentale” – spesso arroccato in difesa di una storia dell’arte (e del cinema) da considerare intatta – per costituirsi in autentiche zone franche di creatività sommersa. Augusto Tretti è sicuramente tra i cineasti più singolari del cinema italiano (e non solo) grazie a due lungometraggi “inclassificabili” e dalle lunghe traversie produttive e distributive ("La legge della tromba" e "Il potere", che viene riproposto in questa occasione). Utilizzando in modo originale il metodo brechtiano, Tretti è riuscito a scardinare rituali e luoghi comuni del cinema (recitazione impostata e strutture formali del cinema di consumo - come la bella fotografia, il lusso e lo sfarzo) per arrivare alla più sorprendente messa in scena estetica e contenutistica.

Anche all’interno del Centro Sperimentale di Cinematografia non sono mancate opere borderline, magari nate proprio negli anni inquieti della contestazione. Come i due interessanti saggi di diploma "In punto di morte" di Mario Garriba e "Sul davanti fioriva una magnolia" di Paolo Breccia.
Girato in soli 15 giorni, con un budget complessivo di 7.819.000 lire, In punto di morte preannuncia il morettismo a venire ("Io sono un autarchico", "Ecce Bombo...") mettendo in scena “i sogni d’oro” di un giovane della piccola borghesia (interpretato da Fabio Garriba, fratello gemello del regista) che si rifiuta di crescere, sbeffeggiando e criticando tutti (la madre, gli amici, la ragazza). Splendidamente fotografato da Renato Berta, il film vince il Pardo d’oro come miglior opera prima al Festival di Locarno. Curiosità del destino: il regista Mario Garriba parteciperà come attore a "Sogni d’oro" e "Bianca", entrambi diretti da Nanni Moretti.
"Sul davanti fioriva una magnolia", fortemente voluto da Roberto Rossellini che fece ottenere all’allora giovane regista ben tremila metri di pellicola, fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e piacque a molti, soprattutto a Bernardo Bertolucci. Ma nonostante diversi apprezzamenti critici ("memorabile frutto “maudit” fuori stagione, il più limpido dei film ermetici, il più ottimista dei film apocalittici, il più romanzesco dei film didattici") il film è rimasto inedito nelle pubbliche sale. Un peccato perché oltre a essere uno straordinario film-saggio tra Godard, Straub e il Bertolucci di Prima della rivoluzione, vanta un attore protagonista particolare: il futuro regista Peter Del Monte

Tre titoli compongono in questa retrospettiva lo “spazio Carmelo Bene”: "Bis", "Il canto d’amore di Alfred Prufrock", "Hermitage".
"Bis" di Paolo Brunatto è girato nell’appartamento di Maria Monti a Vicolo del Cinque a Trastevere (frequentato anche dal Living Theatre), Brunatto insieme a Marco Masini filma le prove di Carmelo Bene del primo atto dello spettacolo "Il Rosa e il nero", tratto da Lewis, che andrà in scena subito dopo al Teatro delle Muse. Nel film compaiono Bussotti, Braibanti, Gelmetti e il cantautore Silvano Spadaccino, che si soffermano ad analizzare il teatro di Bene. Perfetto esempio di documentario irregolare in quanto, come accadeva nel precedente "Un’ora prima di Amleto", Bene si sottrae alle domande di Brunatto. E Brunatto stesso non può far altro che cogliere brandelli di risposta in presa diretta, ma asincrona rispetto alle immagini.
"Il canto d’amore di Alfred Prufrock è il saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Nico D’Alessandria. Saggio ambiziosissimo supportato dal genio (qui solo verbale) di Carmelo Bene (voce narrante) e di Luciano Berio (che cura la colonna sonora). Il resto è Nico D’Alessandria, mina vagante del cinema italiano, che ha girato, forse, l’opera prima più interessante degli anni Ottanta, L’imperatore di Roma, per poi firmare l’intenso L’amico immaginario e lo sfortunato Regina Coeli, realizzato a distanza di molti anni dalla sceneggiatura. Autore a dir poco marginale, scivolato alla deriva di un cinema italiano sintonizzato su altre dimensioni narrative e spettacolari, qui anche attore di se stesso, al servizio di un dolente testo di Thomas Stearns Eliot, letto, interpretato, manipolato dalla voce di Bene, il cui accento anticipa quello di Volonté in Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e ben si sposa con le distorsioni sonore prodotte da Berio.
"Hermitage" è un cortometraggio diretto da Carmelo Bene che prende il titolo dall’albergo in cui è stato girato (suite 805 dell’Hotel Hermitage). Il talento di Bene rifulge in tutta la sua grandezza in questo oggetto inclassificabile, 24’ di cinema/anticinema/metacinema, con continui rimandi a se stesso, alla Storia, a storie precedenti e successive, alla coscienza disgregata di un uomo/attore che mette in gioco tutta la sua cultura distruttrice e si smarrisce in essa. Ieri come oggi. Prendere dieci in storia per far contenta sua madre, o uccidere sua madre per far contenta la storia...

19/07/2011, 16:07