VENEZIA 82 - Paoli De Luca: “Rubare gli occhi dello spettatore”
L’adolescenza come tutti l’abbiamo vissuta, gli sguardi ricchi di desiderio, i baci rubati: la regista
Paoli De Luca, classe 1999, napoletana, racconta nel cortometraggio “
Marina”, in concorso alla Sic nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia 82, l’adolescente Marina che, un anno dopo aver iniziato la sua transizione di genere, passa un weekend estivo a casa dell’amica Camilla. Tutti sono affascinati dalla sua bellezza, ma lei sente un confronto costante con il corpo dell’amica, che osserva e che ritrae sul suo taccuino. L’arrivo in casa di Lorenzo e dei suoi amici, metterà a dura prova Marina, Camilla e la loro amicizia.
Ne abbiamo parlato con la regista, attualmente allieva di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Chi è Marina?
“Marina nasce da un’intuizione mia e di uno degli sceneggiatori del corto, Federico Amenta. Quando scriviamo insieme ci piace dare ai nomi un significato più ampio, un respiro simbolico. Marina ci sembrava perfetta: è un nome di persona, ma è anche un aggettivo che richiama il mare, la spiaggia, la natura selvaggia legata all’acqua. Volevamo che questo personaggio avesse una doppia identità. Abbiamo guardato a prodotti come “Skam”, che in Italia ha aperto nuove strade nel racconto degli adolescenti, soprattutto in termini di sessualità fluida. Però ho sempre avuto l’impressione che mancasse una fetta importante: quella delle identità di genere non cisgender. In Italia c’è ancora paura ad affrontare queste tematiche”.
A me è piaciuta la naturalezza con cui il corto racconta queste esperienze: non in maniera sensazionalistica, ma come parte di ciò che tutti abbiamo vissuto da adolescenti.
“Esatto. Io soffro un po’ da spettatrice quando vedo che, in Italia ma anche in Europa, le persone trans vengono raccontate sempre con uno sguardo stereotipato. Soprattutto le donne trans: per decenni la rappresentazione è stata legata quasi solo a contesti di difficoltà economica, marginalità, prostituzione. Questo non significa che io disprezzi la prostituzione, anzi. La considero un lavoro e penso che culturalmente sia stato fondamentale in certi contesti storici, soprattutto nelle comunità trans a Napoli, da dove vengo: durante il dopoguerra, infatti, aiutavano le famiglie in difficoltà, facevano da babysitter ai neonati delle donne che magari avevano perso i mariti in guerra. Ridurre tutto a quella narrazione è ingiusto: porta a vedere le persone trans solo con pietà o come una minaccia, senza coglierne la complessità. Marina è un’adolescente come Camilla o Lorenzo. Non c’era bisogno di giustificare o spiegare nulla. Era più interessante mostrare due corpi che si incontrano, che si cercano, che si piacciono o no. Abbiamo lavorato su immagini e sensazioni, senza appesantire con discorsi. Perché Marina non deve spiegarsi, non devo spiegarla io, non dobbiamo spiegarla al pubblico”.
Lo sguardo maschile è sempre presente…
“Sì, perché non possiamo ignorare il peso del male gaze. La nostra cultura è impregnata di sguardo maschile sui corpi femminili. Anche nel corto, per questo c’è la scena del bagno finale: un tentativo di ribaltare quello sguardo, di dare autonomia e indipendenza ai corpi. Se avessimo raccontato Lorenzo come protagonista, probabilmente sarebbe stato lui la vittima dello sguardo delle ragazze o, ancora di più, dello sguardo dei suoi amici”.
Infatti lui è attratto da Marina, ma è spaventato da questo sentimento, non è libero di viverlo…
“Lorenzo purtroppo è un personaggio che non riesce a decostruirsi perché è vittima dello sguardo dei suoi amici. Lui è una sorta di chaser, un “cacciatore” che in segreto si accompagna a donne trans perché le vede come un feticcio, apertamente le rifiuta. Sono dei soggetti che vivono “nell’ombra””.
Pensi che “Marina” possa diventare un lungometraggio?
“Sì, mi piacerebbe moltissimo. Ma con un lungo bisogna fare un passo in più: non fermarsi alla transizione, che è solo l’argomento, non il tema. I temi universali sono altri: il tradimento, l’amicizia, la scoperta del desiderio. La transizione è solo uno dei contesti in cui questi temi si intrecciano. Un lungo potrebbe dare più profondità e stratificazione alle relazioni tra i personaggi. Per me sarebbe una sfida nuova, enorme. Il corto è un laboratorio perfetto, ti permette di sperimentare, anche di sbagliare. Ma un lungo ti obbliga a catturare l’attenzione dello spettatore per un’ora e mezza, due ore. Io sogno di affrontare questa sfida: capire come fare in modo che chi guarda resti con noi, senza distrarsi, senza prendere il telefono. Voglio studiare come “rubare gli occhi” dello spettatore e trattenerli. Sarebbe un’esperienza bellissima, e penso che ogni regista prima o poi debba provarci”.
02/09/2025, 17:33
Caterina Sabato