Note di regia di "Tutta Colpa del Rock"
È un’umanità allo sbando che abbiamo trattato con tutta la tenerezza e la comprensione possibile. Perché nessuno è immune dalla fragilità. Tutti, in qualche modo, portiamo i nostri errori sulle spalle. Non abbiamo cercato né il grottesco né lo slapstick né la redenzione facile. Vorremmo che il pubblico amasse questi personaggi perché sbagliano, inciampano, fanno tenerezza. Osso che canta "Il cielo in una stanza", il Professore che, fuori dalla prigione, non ha nessuno da cui andare, Eva che alterna dolcezza e violenza come un pendolo impazzito. Anche nei momenti più comici, la domanda era sempre la stessa: cosa c’è di vero, di umano, in lui? In lei? È una commedia dalla struttura classica – riuscirà Bruno a portare la figlia al Rock Tour? – ma ci siamo impegnati per non scivolare nel cliché e nei personaggi bidimensionali. E raccontare il processo di trasformazione di Bruno. Grazie agli altri, ai fallimenti, e soprattutto all’amore (goffo, sincero, imperfetto) per la figlia, inizia a smettere di mentire, a mettersi in discussione, a diventare – forse – una persona migliore. Nel nostro film convivono anche elementi drammatici: il carcere, le occasioni perdute, i rapporti spezzati, il desiderio insopprimibile di libertà.
Abbiamo cercato un equilibrio fragile ma necessario: non rinunciare mai al sorriso, anche mentre raccontiamo la solitudine, l’illusione, la mancanza di prospettive. Le scenografie (Daniele Frabetti) e i costumi (Eva Coen) si giocano sul contrasto tra libertà e costrizione. Gli ambienti istituzionali – tribunale, carcere, ministero, uffici –sono algidi, simmetrici, razionali. Al contrario, la scena finale, il concerto, esplode in un tripudio di colori, forme, suoni: la creatività che si oppone alla regola. Il rock, ancora una volta, come simbolo di evasione e identità. La fotografia di Michele D’Attanasio è luminosa, contrastata, mai slavata, mai patinata. La macchina da presa – Simone D’Onofrio insieme a D’Attanasio – è sempre in movimento, come i nostri occhi quando osservano il mondo. Non volevamo inquadrature rigide o troppo composte. Cercavamo qualcosa di sporco, rapido, mai compiaciuto: uno sguardo che fosse parte della band, della cella, del caos.
La musica, ovviamente, è molto importante: i personaggi la suonano, la cantano, la vivono. Anche per questo abbiamo scelto veri musicisti, come Elio e Naska, per renderla credibile e viva. La colonna sonora – composta da Motta – è rock. Non è la solita musica da commedia, perché questo film mescola, almeno parzialmente, i generi: fa ridere ma è anche toccante, racconta cose vere ma in modo un po’ folle, è tenero ma a volte anche duro.
Andrea Jublin