Note di regia "Il Nido"
Il cortometraggio vuole raccontare il rapporto madre–figlia, partendo dallo sguardo intimo e personale del regista. Lo scopo è far sì che tutto ciò diventi un qualcosa di nuovo, non un sostituto, ma un’integrazione, un’elaborazione, attraverso una modificazione del proprio mondo interno. Si è deciso di attingere al genere fiabesco poiché le fiabe sono un tesoro di saggezza popolare che coglie la realtà più cruda dell'interiorità umana: una spiegazione generale della vita, un catalogo dei destini dell’uomo. Il reale vive nel mondo del fantastico, in una indeterminatezza spaziale e temporale avvolta nel magico. La dinamica esplorata è quella tra una madre e una figlia legate da un amore simbiotico, viscerale. Spesso distinguiamo la madre “giusta” che cura, accudisce, protegge; dalla madre “sbagliata” assente, inaffettiva, negligente. Quando una madre interagisce con la figlia come se fosse un prolungamento di sé stessa, quando interviene in ogni sua scelta con la presunzione di sapere quello che è giusto o sbagliato, quando non riesce a lasciarle anche un minimo spazio di libertà, allora si sta parlando di rapporto invalidante tra madre e figlia. La figlia viene quindi spogliata della sua specifica identità proprio da colei che dovrebbe aiutarla a costruirla. Il dominio materno si esprime nella sua caratteristica più prepotente: il rifiuto della separazione. Tutto ciò che può “minacciare” il rapporto madre-figlia viene sistematicamente attaccato, allontanato. Il rifiuto della separazione da parte della madre spingerà la figlia, che non ha mai conosciuto altro mondo se non l'abbraccio di sua madre, a una ricerca disperata della propria identità per compiere il passaggio da figlia a donna e conquistarsi uno spazio fisico e psichico proprio, libero da una pesante eredità femminile di dipendenza trasmessa di madre in figlia. A seguito dell’evento magico Annalisa non è solamente la “fanciulla” della fiaba ma la figlia di una madre oppressiva come tante altre e seppure “armata” delle sue ali è un essere umano e a differenza di una fenice non può fare tabula rasa e risorgere dal nulla. Perché noi esseri umani che viviamo fuori dalle fiabe abbiamo qualcosa che ce lo impedisce: la nostra memoria emotiva, una memoria inconsapevole che guida i nostri comportamenti e i nostri pensieri. Ciò che possiamo fare è altrettanto potente e di certo più realistico del risorgere dalle ceneri: possiamo ridefinire noi stessi a partire proprio da quelle memorie implicite che minano il nostro valore.
La fotografia asseconda i sentimenti e le vicende che vengono rappresentate. I due personaggi sono per la maggior parte del minutaggio dell’opera riprese con camera a spalla, suggerendo un’intensa intimità seguita sistematicamente dalle sfaccettature fragili e delicate dettate dalle intenzioni delle due protagoniste. Insieme al direttore della fotografia Mattia Cavaliere, si è deciso di ricorrere a scelte particolarmente accorte per quanto riguarda l’utilizzo di ottiche specifiche in merito alle scene rappresentate. Dato il tema dell’oppressione, quando in scena vi sono presenti entrambi i personaggi, la fanciulla è sempre ripresa con ottiche molto strette, mostrandosi racchiusa in quello che risulterà per forza di cose un minuscolo spazio della “pellicola”. Differente il discorso quando è ripresa completamente sola all’interno della sua stanza, dove appare minuscola e circondata dal suo micro mondo, dove la sua stessa figura ha il permesso di respirare grazie all’utilizzo di ottiche molto larghe. La cinepresa utilizzata per la registrazione del cortometraggio è Arri Alexa Mini e dato il genere fiabesco che volevamo rappresentare abbiamo deciso di utilizzare come lenti le Cooke s4 i, famose per la loro estetica e la loro pasta morbida
perfette per il nostro film. La scenografia gioca su due colori complementari: rosso e verde. Rosso come il sangue come la macchia di dolore di cui sono intrise le vite delle due protagoniste;verde come la speranza di una libertà fisica e psichica. La scenografia, ricolma di oggetti, giochi, tessuti di diverse fantasie, risulta, come la fotografia, soffocante,proprio come il modo in cui i personaggi comunicano tra loro e esprime questo contrasto costante tra il vuoto che i personaggi si portano dentro e la loro tendenza spropositata a colmarlo con ogni tipo di contatto. E la sensazione che si ha immediatamente è che tutto questo contatto sia l’unico modo che loro hanno per colmare i silenzi, per trovare una rapida alternativa alle parole che non sanno dirsi. Due donne sospese fuori dal tempo, in un’ambientazione che non vuole cristallizzarsi in un periodo o uno stile specifico, tra il ricordo di quello che sono state e il rimpianto lacerante per tutto quello che non potranno essere. Durante la visione del cortometraggio si denota sostanzialmente la differenza compositiva sonora tra la prima e la seconda parte (tra il mondo ordinario e straordinario); durante la prima parte abbiamo atmosfere sospese, lunghi silenzi, pochi suoni extradiegetici e il suono ambientale che fa da padrone. Mentre durante la seconda parte del racconto, dove la metamorfosi avviene e prosegue, le protagoniste sono costantemente accompagnate da un sottofondo musicale che sottolinea ed enfatizza momenti di curiosità, sorpresa ed infine orrore.
Daniele Fugarese