Conversazione con Federico Ferrone
DA DOVE NASCE L’IDEA DI QUESTO LAVORO?
Come tutti, a metà anni 2010, sono rimasto colpito dagli attentati dell’Isis, e in particolare dai foreign fighters che partivano per la Siria e l’Iraq. Al di là dell’orrore oggettivo delle loro azioni, scavando nelle loro vite emergevano profili molto diversi. Musulmani dalla nascita, convertiti, ex spacciatori, pregiudicati, ingegneri, persone con turbe psichiche, allievi modello, uomini, donne, perlopiù giovani... Come se la tentazione della violenza jihadista potesse colpire tutti. Ho voluto immaginare la parabola di un ragazzo “normale”: intelligente, ipersensibile, ma anche inquieto, rabbioso. Una specie di figlio o fratello maggiore preda di una deriva pericolosa, ma con cui fosse possibile empatizzare. È una cosa rara, anche malvista, ma che mi sembra necessaria.
HAI CERCATO DI METTERE IN RELAZIONE IL RADICALISMO ESISTENTE RISPETTO AL VUOTO CHE SEMBRA ATTRAVERSARE QUESTA FASE DELLA VITA DELLE SOCIETÀ OCCIDENTALI?
È evidente che esiste un vuoto in Occidente che spinge al desiderio di appartenenza, in forme vecchie o nuove: religione, politica, sindacato, calcio, musica... È un fatto universale. E l’Islam, soprattutto, nella sua dimensione egualitaria, transnazionale, oppure spirituale, ha
un’attrattiva molto forte anche (soprattutto?) per chi cresce in Occidente. Poi è chiaro che ognuno interpreta quest’appartenenza a modo suo, il che permette derive ed evoluzioni di ogni tipo, anche violente o farneticanti. Capire le ragioni della violenza non significa giustificarle, ma è un atto necessario.
RITIENI CHE LE INQUIETUDINI DEL TUO PROTAGONISTA, A PRESCINDERE DAGLI SBOCCHI CHE HANNO NEL FILM, SIANO UNA CIFRA COMUNE AI RAGAZZI DELLA SUA GENERAZIONE?
Credo che siano inquietudini comuni alla sua generazione, ma non solo. C’è qualcosa di universale, anche se poi le esperienze variano a seconda dei paesi, anni, contesti e persone. Nel preparare il film ho incontrato anche molti reduci della lotta armata europea degli anni ‘70, per capire se ci fosse qualcosa di comune in esperienze che ricorrono alla violenza o comunque non la rigettano. Però mi fermo qui. Il film è la storia del mio protagonista Mattia: segue una parabola molto peculiare e ricollegarla troppo a fenomeni di ampio respiro è fuorviante.
COME INFLUENZANO IL TUO APPROCCIO AL CINEMA LE TUE ESPERIENZE DI VITA NEL MONDO MUSULMANO?
In passato avevo lavorato a vari documentari sul mondo musulmano e l’Islam in Europa, che hanno alcuni punti di contatto con questo film. Ho vissuto in Tunisia e dal 2018 abito in Turchia. Banalmente ho cercato di raccontare i personaggi e i luoghi legati all’Islam e al mondo arabo in maniera più umana possibile, evitando cliché e inesattezze. Mi sembra doveroso, e peraltro rende il film più forte. Abbiamo girato nella moschea di Trento, ad esempio, creando una bellissima collaborazione con l’imam e la comunità locale. Lo stesso in Marocco, a Tangeri, adattando anche alcune scene alla realtà che trovavamo sul posto. Abdessamad Bannaq, che interpreta Murad e ha un’esperienza di vita eccezionale tra Marocco e Italia, mi ha aiutato molto in questo. Le riprese del film sono state per molti, me per primo, un’esperienza di scoperta.
COME PONI IN RELAZIONE AI TUOI LAVORI PRECEDENTI QUESTA PRIMA OPERA DI FINZIONE? CI PUOI PARLARE BREVEMENTE DELLE PRINCIPALI SCELTE DI REGIA CHE HAI FATTO IN QUESTO FILM?
Al di là dell’Islam che avevo esplorato in forma documentaria, temi come il bisogno di appartenenza e la violenza erano presenti anche nei due film Il treno va a Mosca (2014) e Il Varco (2020) che ho girato con Michele Manzolini. Ne La cosa migliore ho collaborato con Simonluca Laitempergher e Maria Fantastica Valmori, rispettivamente musicista/sound designer e montatrice de Il Varco. Oltre a questa continuità, l’approccio documentario mi ha guidato nella scelte dei luoghi, degli interpreti, ma soprattutto nell’apertura a modificare il film a seconda delle situazioni incontrate o del vissuto degli attori. A Tangeri alcuni scene sono state addirittura improvvisate. E questo stato possibile grazie all’intesa che si era creata coi tre attori principali, e alla libertà con cui abbiamo esplorato e lavorato in quella città, grazie a una troupe composta anche da persone del luogo conosciute nell’arco di lunghi sopralluoghi.
COME SI CONIUGA QUEST’APPROCCIO DOCUMENTARIO AL LAVORO CON GLI ATTORI?
Il lavoro con gli attori è partito molto prima delle riprese, influenzando anche la sceneggiatura e i dialoghi. Non solo per le comparse, ma anche per i ruoIi principali. Il personaggio di Mattia è molto più vicino al Luka Zunic che ho conosciuto in quei mesi di quanto non lo fosse nella sceneggiatura. Anche i personaggi di Murad e Rashid si sono evoluti assumendo caratteristiche degli attori che li interpretano. Penso che, così facendo, il contributo degli attori al film sia stato determinante, come speravo dall’inizio. Poi è chiaro che lavorando con un attore come Fabrizio Ferracane tutto diventa facile anche per chi, come me, non aveva mai diretto un attore prima.