Quello che un film documentario si propone è per definizione il racconto del reale. Ma in questo caso si vuole raccontare un tipo particolare di “realtà”, quella che i media hanno costruito attorno alla tragedia svoltasi nel 1981 a Vermicino, un sobborgo di Roma, trasformando la cronaca di un bambino caduto in un pozzo artesiano in una favola che si voleva a lieto fine e che invece è divenuta una tragedia senza sbocchi.
Vuole raccontare la diretta tv a reti unificate che per ore e giorni ha inseguito la realtà di quel fatto così drammatico, personale, umano, facendola sfuggire tra le dita e incastrando un popolo di milioni di spettatori in un circolo vizioso di vita e di morte.
Il linguaggio del documentario mescolerà le lingue delle infinite incarnazioni che i Media hanno prodotto a partire dalla storia di Vermicino, televisive innanzitutto, ma anche letterarie, musicali, poetiche: da romanzi a canzoni e serie tv, da graphic novel a murales dipinti sui palazzi di Roma.
La scommessa è capovolgere il punto di vista, puntare l’obiettivo non sulla storia di “Alfredino”, ma sui Media che hanno preteso di raccontarla, usando le telecamere o l’inchiostro delle rotative come la bacchetta magica di un apprendista stregone e venendone travolti, assieme a milioni di spettatori.
Umberto Eco in un suo saggio ha definito il racconto della tragedia di Vermicino come la fine della possibilità di raccontare la realtà. E ha sottolineato come questo allontanamento dalla verità, avvenisse proprio nel momento in cui, usando per la prima volta la diretta senza limiti di tempo e senza il condizionamento di una regia, di un montaggio, la televisione immaginava di “diventare” realtà, di incarnarla. E invece la strumentalizzava e ne veniva a sua volta strumentalizzata.
Perché la realtà non ha linguaggio, non ha regole, semmai ha un destino. E non può che travolgere o fare impazzire chi cerca di intrappolarla, domarla, costringerla nello spazio di uno schermo.
Andrea Porporati