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Note di regia di "Street Food"


Note di regia di
L’idea di questa storia nasce sulle coste dell’Abruzzo. Presso un classico furgoncino dei panini, più grande del normale, con vari ragazzi che lavoravano al suo interno. Tutti uomini, tranne una. Quella che sembrava essere la proprietaria: una ragazza giunonica con i capelli legati e una maglietta sporca di unto. Comandava tutti con fermezza, era imponente, ma guardandola negli occhi si poteva scorgere benissimo un misto di malinconia e tristezza. “Che vita faceva quella ragazza?” mi chiesi mentre gustavo il suo buonissimo panino in una giornata di agosto.
La storia è una parentesi nella vita della protagonista. Ho voluto sperimentare questa narrazione di un luogo e di un tempo di una persona: Valeria, questo il nome che ho subito pensato guardando la ragazza dei panini. Volevo indagare quando e come una persona, che fino a quel momento ha sacrificato tutta la sua vita per gli altri, si rende conto che finalmente esiste, che non è al mondo solo per soddisfare i bisogni di chi la circonda, ma vive, ha un proprio respiro e di conseguenza una propria realtà. Il luogo a me proposto è stato la periferia di Roma, dove troppo spesso molte persone si trovano costrette in situazioni, in ruoli dai quali sottrarcisi diventa quasi impossibile. E così, con la partecipazione e collaborazione della residenza di MotoreAzione, questa mia proposta, nata sulle spiagge abruzzesi, è diventata sempre più concreta. Dalla scelta dell’attrice, con i suoi occhi che mi rimandavano agli occhi pieni di malinconia della ragazza dei panini sulla spiaggia, alla scelta del nome: “Street Food” letteralmente cibo di strada e quindi il mangiare dalla strada che lei, la protagonista, metaforicamente ingerisce e butta giù; la sua realtà che si fa viva e pulsante come un pezzo di carne e quindi concreta e grazie alla quale Valeria potrà rendersi conto di esistere.
Dal punto di vista fotografico volevo che tutto il corto avesse un aspetto che ricordasse quell’unto e quello sporco delle piastre della carne, a questo proposito con il direttore della fotografia abbiamo lavorato sul contrasto dell’alternanza tra la vita diurna a lavoro della protagonista e la sua vita notturna in casa; la fotografia ha voluto sottolineare questi due elementi, contrapponendo gli esterni giorno caldi e afosi con degli interni notte surrealisticamente freddi e contrastati.
Tramite il lavoro con l’audio ho voluto che tutti gli ambienti avessero una loro esistenza sonora, perlopiù fatta di rumori di sottofondo (come la cappa e il frigorifero in cucina o il rumore del traffico); per arrivare al momento finale dove la protagonista attraverso un lungo respiro avesse un suo momento di silenzio per ascoltarsi nel profondo.
L’ascolto del sé più profondo porta Valeria a compiere una scelta, che noi non vediamo; il film, di fatto, non mostra cosa sceglierà di fare, ma mostra il processo che avviene prima: da dove nasce la volontà di un cambio di rotta. Mi sono soffermata su quelle che potevano essere le ragioni e i doveri per i quali a volte una persona è costretta ad interpretare suo malgrado un ruolo mai chiesto. La scelta di non mostrare cosa la protagonista potrebbe aver fatto nel momento di massimo climax vuole sottolineare che il come non è importante, ma mette in luce che una scelta, nel bene o nel male, è stata fatta.
Il rapporto che la protagonista ha con il cibo, tutto questo toccare e impastare, evidenzia tutta la solitudine della giovane donna, l’unico contatto che ha è solo con la carne cruda perché quelli che dovrebbero essere i suoi contatti “vivi” la ignorano.
Dunque Valeria viene, suo malgrado, posta di fronte ad una valutazione della sua esistenza; cosa farà da quel momento in poi è un’altra storia.

Paolina Gramegna