Matilda Lutz in "A Classic Horror Story"
Mettendo da parte tutte le definizioni e tutti i luoghi comuni sui film di genere, tralasciando giudizi e considerazioni sull’horror italiano o gare all'ultima citazione ed evitando paragoni scomodi e richiami alla memoria o alle mode, c’è da dire che,
A Classic Horror Story, funziona.
Roberto De Feo e Paolo Strippoli riescono a metterci quella punta di ironia dettata dall’incoscienza dell’età ma anche dalla cura realizzativa e da una sana passione che spesso si trasforma in talento, dando ai due registi, insieme agli sceneggiatori, la lucidità per mettere in scena un racconto meta-cinematografico, in grado di mescolare le follie del contemporaneo con quelle, non meno pericolose, di un passato tradizionale e folcloristico.
E dunque telefonini con gli immancabili video che aprono e chiudono la storia, ma anche una dose pesante di tradizione, vera o inventata poco importa, che riporta i personaggi e noi spettatori all’interno di abitudini contadine, tanto presenti nella nostra provincia durante la tutta stagione estiva e in grado di attrarre turisti e villeggianti con processioni, riti religiosi o pagani, sanguinolenti ringraziamenti agli dei e ai santi di ogni posto più sperduto.
Se a Roma c’è Suburra, in Campania Gomorra, e in Lombardia 1992 e 1993 (vizi diversi, stessi risultati) in "
A Classic Horror Story" i personaggi si perdono nei boschi della Calabria, cadendo nelle maglie di una ‘ndrangheta contadina storica, legata al passato e alle origini della criminalità organizzata. I colpi di scena non mancano, il sangue anche come del resto non mancano gli ingredienti principali di ogni film del genere, scritto e diretto, ma stavolta anche interpretato, per poter essere all’altezza della competizione mondiale che Netflix mette a disposizione per ogni film che se la sente.
01/07/2021, 16:11
Stefano Amadio