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Note di regia de "L'Uomo del Labirinto"


Note di regia de
Sin dai tempi di Agatha Christie, l’autore di un thriller ingaggia una sfida con il lettore: sarà in grado di celare fino all’ultima pagina il colpo di scena che risolve il mistero? Egli, però, dovrà fornire al lettore tutti gli elementi per giungere da solo alla soluzione, anche prima del tempo. Potrà usare inganni o sotterfugi, ma la verità dovrà essere sempre davanti agli occhi di chi legge – opportunamente occultata, si intende. Il mio scopo è sempre stato scrivere romanzi che sembrano dei film e i fare dei film che assomigliano a un romanzo. Con i miei libri cerco di evocare immagini nella mente del lettore, così i miei film non devono esaurirsi in ciò che è visibile sullo schermo. Io credo nel potere evocativo del racconto. Per esempio, ne «La Ragazza nella Nebbia» molti spettatori hanno successivamente citato la scena di un omicidio che, in realtà, nel film non c’era ed era solo descritta da uno dei protagonisti. Eppure quelli erano assolutamente convinti di averla vista! Ho fatto tesoro di quell’esperienza e ne «L’uomo del Labirinto» l’invisibile è importante almeno quanto ciò che si vede. Questa dimensione del racconto è fatta di linguaggi subliminali e di trappole per l’inconscio. Il pubblico non sarà semplicemente “spettatore”: verrà coinvolto, compromesso e, a volte, sarà anche complice. L’investigatore privato Bruno Genko (Toni Servillo) è un uomo che sta per morire: i medici gli hanno dato due mesi di vita e, quando inizio a raccontarlo, il conto alla rovescia è appena scaduto... ma lui non è morto. «Ieri sera aspettavo la mezzanotte, come Cenerentola... E non è successo niente...» afferma, ridendo di se stesso. Genko si trova in una situazione grottesca e paradossale. È come se si domandasse «E adesso che succede?» Non sa se gli restano da vivere secondi, minuti, ore oppure giorni o addirittura settimane. E in questo supplemento di vita – che non sa se sia un regalo o un dispetto – decide di indagare su un vecchio caso che non ha mai portato a termine: la scomparsa di una ragazzina. Crediti non contrattuali 7 La sua è una discesa agli inferi. Ho voluto che nel film fossero presenti molti richiami all’opera dantesca. C’è il Limbo, il nome dato all’ufficio persone scomparse. Gli scomparsi sono sospesi fra la vita e la morte: non sapendo dove sono e cosa gli è accaduto, le loro anime rimangono prigioniere del dubbio. Non hanno diritto al paradiso e nemmeno all’inferno. C’è il girone dei Lussuriosi: l’unico affetto di Genko è una prostituta albina, un demone gentile predestinato a essere una vittima innocente. Cerbero è la vecchia custode di una casa famiglia abbandonata nel cui sotterraneo si nasconde un terribile segreto. C’è una palude – lo Stige – e uno strano locale in cui Genko si addentra fra iracondi e accidiosi per incontrare un giovane che porta su di sé i segni del fuoco sotto forma di cicatrici deturpanti: un novello Flegias. La casa di Genko stesso è un girone infernale: quello degli avari. L’investigatore privato non possiede nulla: non ci sono mobili, né fotografie, nessun ricordo della vita che sta per abbandonare. In fondo Genko si è sempre occupato di “recupero crediti”: il solo scopo della sua esistenza è stato la meschina ricerca del denaro altrui. Nel sesto cerchio – quello degli eretici – c’è un uomo con una benda su un occhio: un esperto di fumetti, un adoratore di falsi idoli – supereroi e affini. C’è anche un Minotauro: la creatura zoomorfa però è un uomo con la testa di coniglio e gli occhi rossi a forma di cuore. Egli è uscito dal settimo cerchio, quello dei violenti: la tana nauseabonda di un vecchio e, apparentemente innocuo, sacrestano. Infine, l’ottavo cerchio è quello dei fraudolenti. Il Labirinto. Un luogo pieno di trappole e di inganni, abitato dal peggiore dei mostri: quello che vive nella nostra mente. Per raccontare tutto questo, ho voluto che gli ambienti del film fossero ricostruiti in teatri di posa, proprio per ricreare la sensazione di un mondo a parte. Ho voluto che tutta la storia si svolgesse come una sfida fra due protagonisti: l’investigatore privato e il profiler. L’uno è la nemesi perfetta dell’altro. Una caccia all’uomo – al colpevole, al malvagio – condotta con due metodi diversi. Quella di Genko avviene nel mondo reale, sporcandosi le mani e rischiando in prima persona... Anche se uno che sta per morire non ha nulla da perdere. Quella del dottor Green è cerebrale, sottile ma anche spietata perché il profiler non risparmierà alcun mezzo, anche il più scorretto, pur di penetrare nella mente della vittima: perché è lì che si nasconde il mostro, la preda agognata da ogni cacciatore. Per realizzare questa messinscena avevo bisogno di Toni Servillo e Dustin Hoffman. Crediti non contrattuali 8 A Toni ho chiesto di modificare voce, postura, energia del personaggio man mano che si avvicinava la fine di Genko e questi si addentrava nel proprio inferno. Insieme abbiamo costruito gli incontri del protagonista con i vari demoni: perché solo chi è in fin di vita riesce a vedere e a sentire cose che agli altri sono precluse. A Dustin ho domandato di essere gentile, compassionevole ma anche ambiguo. Non volevo il solito profiler, uno di quei moderni investigatori che si vedono nelle serie o nei film o che si trovano nei libri: tecnicamente abilissimi a decifrare gli indizi, quasi come supereroi pronti a salvare il mondo. Invece avevo bisogno di un vecchio saggio, dotato di una lunga esperienza, capace di cogliere non le prove ma i segni del male. Un maestro severo che insegna alla vittima a sconfiggere da sola il proprio carnefice. Anche se questo comporta un percorso duro e doloroso. I due attori, come i rispettivi protagonisti, s’incontreranno due sole volte nella storia. Il primo è un incontro quasi subliminale, il secondo è la soluzione di tutto ma segna anche l’inizio di un nuovo mistero: quello che il pubblico dovrà portarsi a casa. Il loro dialogo, apparentemente futile, è la sintesi estrema del racconto. Ho voluto fare un noir che fosse coloratissimo e pieno di musica. Volevo uscire dall’atmosfera gelida dei thriller degli ultimi anni, che si accompagna spesso a una musica cupa, di solito elettronica. L’ispirazione me l’ha data Hitchcock. Un giorno mi sono imbattuto per caso nelle foto di scena di Psycho. A dispetto di ciò che si vede sullo schermo, il maestro della suspense aveva voluto set e costumi esageratamente colorati (i maligni raccontano che il regista alla fine abbia optato per un film in bianco e nero perché, avendo finanziato personalmente una pellicola in cui nessuno credeva, non aveva potuto “permettersi” il Tecnicolor...). Dopo aver visto le foto del set di Psycho, dovendo rappresentare un inferno, non potevo che tornare ancora una volta a Dante. Nel corso delle mie ricerche ho notato che, nelle rappresentazioni grafiche della Divina Commedia che si sono succedute negli anni, gli inferi erano pieni di colori, invece purgatorio e paradiso apparivano sempre scialbi. Questa idea di associare il male al colore, pertanto, era già radicata nell’immaginario umano Per il mio inferno ho chiesto a Federico Masiero un buio colorato. E a Vito Lo Re di riempire quel buio di melodie struggenti. Il risultato è che «L’Uomo del Labirinto» è un’esplosione di colori e musica sinfonica. Solo il manifesto doveva essere in un elegante bianco e nero, con le foto in controluce dei due protagonisti – come l’invito riservato a una festa con il diavolo.

Donato Carrisi