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Note di regia di "A matita? Omar Galliani"


Note di regia di
A fine dicembre 2015, appena tornato a vivere a La Spezia, lasciata nell’infanzia, ritrovandola trasformata in “cittŕ dei musei”, con l’apertura di sette musei nel corso di meno di 8 anni, mi trovo a visitare con mio figlio sedicenne, disegnatore precoce, oggi al liceo artistico, e la mia compagna, il CAMeC, costruito dove mi ricordo negli anni ’60 ci fosse ancora una scuola, il Centro Arte Moderna e Contemporanea. Ci stupiamo del fervore di attivitŕ che animano i piani del Centro: la mostra Mettiamoci la faccia, sugli artisti liguri fotografati nei loro atelier, la mappa interattiva dove qualsiasi artista che graviti sul territorio puň attaccare la foto di un proprio quadro; la mostra Dal disegno al segno – da Fattori a Sol Lewitt, che accosta in un fertile confronto disegni della ricchissima collezione permanente del Centro e, al secondo piano, la mostra Omar Galliani … a Oriente, una ricchissima antologica che vede esposte quasi una cinquantina di opere dell’artista emiliano, tra cui almeno venti grandi e grandissimi formati. Vedo gli occhi di mio figlio dilatarsi a percepire la minuzia certosina con cui queste superfici sterminate sono riempite di milioni di segni, li vedo colmarsi di stupore quando legge sul cartellino “matita su tavola di pioppo”. “A matita?” ripete incredulo, e questa sua legittima domanda, diventa il titolo di questo film. Perché questa mostra risveglia a sua volta la mia curiositŕ infantile, e mi viene una voglia assoluta di andare a scoprire quest’artista, che in un’ossessione coerente, da piů di trent’anni disegna, rigorosamente con tutti i numeri delle matite Faber Castell, in prevalenza la n.9, i suoi soggetti dilatati di sfumature infinite, su tavole di pioppo dove le venature del legno disegnano altre trame che si combinano, in armonia o in contrasto, con i tratti della grafite, in un gioco continuo. Č la dimensione del gioco che sottende l’uso protratto delle matite in Galliani, con una fedeltŕ e una pertinacia che ricorda quella di Claude Monet, che continuň a cercare di riprodurre l’atmosfera del suo stagno delle ninfee a Giverny, da lui allestito come un giardino giapponese, per piů di trent’anni, smaterializzando la sua pennellata fino alle soglie di un pulviscolo quasi informale, nel contempo espandendosi a dismisura sulle ricurve immense pareti dell’Orangerie. Come immergersi in un acquario, la sensazione con Monet; stessa sensazione al CAMeC con Galliani, dove a gennaio 2016 torno da solo per filmare la mostra e il suo smontaggio. E mi immergo, godendo questo privilegio, con la mia videocamera a scandagliare ogni quadro nei minimi dettagli, in un turbinio di scarpe femminili, cascate di rose in bianco e e nero, forbici e coltelli, come nel finale di Zabriskie Point; tutto circondato da questo acquario nero degli abissi, o spazio siderale profondo, dove volteggiano come le astronavi di 2001, enormi creste iliache, colonne vertebrali, teschi di sotto in su; dove affiorano, seminascosti dalla trama del legno, o tracciati nero su nero a grafite, giganteschi volti sospesi di ineffabile bellezza, che ci negano lo sguardo, come Omar ha negato loro il colore, perché “...negli anni ‘90 faccio una scelta, mi taglio una mano, quella della pittura, e scelgo il disegno, non quello preparatorio, il disegno finito”, come mi dice quando il 23 gennaio lo raggiungo a Reggio Emilia, dove sono andato a conoscerlo, con il mio operatore, mio figlio Giovanni e Michela la figlia della mia compagna, sul punto di laurearsi all’Accademia d’Arte di Firenze. Ho notato, infatti, una foto di un gruppo di ragazzi intento a disegnare davanti all’enorme quadro di Berenice, la ragazza di spalle con i capelli a crocchia, il collo lungo e un simbolo cinese rosso lacca sul collo, unica nota di colore, durante un workshop tenuto da Galliani al CAMeC ; so che Omar insegna all’Accademia di Brera, che ama insegnare, trasmettere maieuticamente la sua passione, e voglio che i miei ragazzi non si perdano quest’occasione irrepetibile, che interagiscano con lui. Sarŕ una giornata memorabile, che questo film testimonierŕ, in cui fluidamente chiacchierando ininterrottamente, Omar ci porterŕ alla scoperta del suo universo, dalle sollecitazioni pittoriche covate giŕ nell’infanzia, attraverso i disegni esibiti ai Civici Musei di Reggio Emilia, nella mostra da lui stesso allestita La linea continua – da Lelio Orsi a Omar Galliani, in cui i suoi disegni “religiosamente messi nelle cassettiere da mia madre” dialogano con i disegni del passato, soprattutto con quelli di Antonio Fontanesi, in particolare una donna ritratta nel paesaggio con un libro in mano, disegno che sollecita ad Omar la realizzazione di un grande dittico, dove le pagine di questo libro socchiuso diventano fogli di Moleskine che si inarcano volando tutt’intorno. Dove affiorano altri richiami infantili, quando il suo costante riferimento al classico, in Correggio si macchia di pece nera, come fosse l’inchiostro che č stato l’incubo di tutti i bambini a scuola.

Di fronte al disegno di una ragazza con lo chignon a spirale, come in un ritratto di Leonardo, dove č appoggiato a far parte del quadro un bicchiere rovesciato che ha bagnato il disegno, Omar rievoca la mostra che si č appena conclusa a Milano, alla Conca dell’Incoronata vicino a San Marco, il canale con le chiuse progettate da Leonardo, recentemente restituito alla cittŕ, dove Omar ha reso omaggio proprio al grande pittore, adagiando quattro sue grandi opere sul fondo asciutto e lasciandole deliberatamente alle intemperie, in un progetto chiamato “Il disegno nell’acqua”, sulla scorta di singolari teorie scientifiche che attribuiscono una memoria anche all’acqua. Le modificazioni dei colori e del disegno per effetto dell’umiditŕ, diventano un agente espressivo in piů, come il legno che continua a vivere nei supporti, provocando creative mutazioni al disegno.

Di lě a poco attraversiamo la piazza ed entriamo nel meraviglioso teatro Romolo Valli, dove nel ’91 Galliani dipinge la sua opera piů grande Siderea, il gigantesco terzo sipario che ora chiude il boccascena, ricco ancora delle centinaia di colori a olio, blu, bianco e rosso lacca, usati per realizzarlo, prima della svolta di Omar nel disegno, tempestato di veri petali rosa che scendono a cascata. Sotto i nostri occhi, il sipario si alza, con le originarie carrucole ottocentesche. Omar indica verso l’alto, dove il sipario č stato dipinto, nella grande “sala dei pittori”, sopra il soffitto circolare, magnificamente affrescato, e ci racconta dell’apprensione di non averlo mai visto alla giusta distanza fino al giorno dell’inaugurazione.

Nel pomeriggio raggiungiamo la sua casa studio a Montecchio Emilia, conosciamo la moglie Laura Intilia e il figlio Michelangelo, scultori entrambi, visitiamo lo studio di quest’ultimo e chiacchieriamo con lui su cosa significhi respirare in casa l’arte sin da bambino. Ogni oggetto della casa di Omar e Laura, quelli raccolti con cura nei frequenti viaggi in Oriente - dal 2005 i cinesi hanno organizzato decine di mostre nelle principali cittŕ e istituzioni artistiche, la stessa mostra del CAMeC, si intitola non a caso ...a Oriente – siano grandi sculture e porte intarsiate venute dal Kerala, viaggiando per mesi su carghi indiani, o le sue opere finite e non finite, o ricomprate all’asta, in “una tentazione irresistibile per un artista, disposto a riavere una propria antica opera, costi quel che costi” come il gioielliere Cardillac di E.T.A. Hoffmann, danno spunto all’artista per parlarci dei materiali che usa, dell’importanza dei supporti di legno, delle venature “che continuano a vivere” modificando il disegno, del frottage con cui opportunamente li lavora prima di affrontarli con la matita; di come questa sua ossessione disegnativa, a volte l’esecuzione di un quadro arriva a durare sei mesi, gli abbia garantito di trovare una sua autonoma e felicissima strada espressiva, che parte dal figurativo e lo dilata ad libitum, raggiungendo come in Blow up di Antonioni una dimensione astratta, criptica, informale. “Nessuno ha mai fatto disegni cosě grandi finiti... sě Leonardo, sě, i suoi disegni come la Vergine e Sant’Anna, sono magnifici e compiuti nei dettagli; c’č il cartone di Raffaello all’Ambrosiana, ma č un disegno preparatorio...” E questa sua cifra stilistica č quindi unica e inconfondibile.

Concludiamo la giornata nel suo immenso studio hangar, dove finalmente lo vediamo e lo filmiamo all’opera, mentre con fitti tratti di matita n.9 rinforza e restaura un dittico, un suo enorme Mantra di piů di 20 anni fa, il viso enigmatico ma sereno di una giovane donna, con gli occhi chiusi in uno sguardo interiorizzato - simile alla “femme enconnue” ripescata intatta nella Senna a fine ottocento, che tanto ha eccitato gli scrittori, da Rilke, a Celine, a Nabokov – a destra; a sinistra, una superficie ricoperta di foglia d’oro, incisa di scritte apparentemente esoteriche, come i caratteri sui sarcofagi etruschi. “Č la mia scrittura, ma sono puri segni grafici, non significano nulla” conclude sornione.

Fulvio Wetzl