FESTA DEL CINEMA DI ROMA 12 - “Ferrari: Race to Immortality”


Nel documentario di Daryl Goodrich, la storia del quinquennio '55-'59, vincente e al contempo sfortunato.


FESTA DEL CINEMA DI ROMA 12 - “Ferrari: Race to Immortality”
Ferrari: Race to immortality
"La sfortuna in quanto tale non esiste. Le avversità sono piuttosto il risultato di quanto non abbiamo saputo o voluto pianificare". Parole proferite da Enzo Ferrari dinnanzi all'ennesima scomparsa per incidente automobilistico, di uno dei suoi piloti nella metà degli anni '50. Anni vissuti col piede sull'accelleratore, pronti a tutto pur di vincere un titolo, anche a sfidare la morte.

Questo aspetto, più che quelli tecnici e sportivi, sembrano aver mosso il regista Daryl Goodrich, autore della produzione inglese "Ferrari: Race to Immortality", che fa luce su quanto avvenne nel quinquennio '55-'59, vincente ma al contempo molto sfortunato per la Scuderia.

Costruito attraverso un buon utilizzo del repertorio, sfruttato in modo dinamico e glam per calarsi meglio nella realtà di anni in cui i piloti riempivano le copertine dei giornali alla pari delle star del cinema, il regista si avvale di una serie di voci di testimoni del tempo al servizio delle immagini sportive o private dei "guerrieri" citati.

Tranne qualche raro accenno a Fangio, il film preferisce concentrarsi sugli altri fenomeni che rappresentavano ai tempi il "cavallino rampante", Eugenio Castellotti, Alfondo De Portago, Luigi Musso, Peter Colins e Mike Hawthorn. Ad accomunare i cinque piloti fu la propria fine,nel '57 Castellotti morto in una sessione di prove a Modena e De Portago durante la Mille Miglia, nel '58 Musso durante il gran premio di Francia e Collins in seguito ad un incidente sul circuito del Nürburgring, e nel '59 Hawthorn perdendo il controllo alla guida della sua Jaguar.

Dietro a tutti i tristi accadimenti, da come Goodrich costruisce la narrazione, sembrerebbe quasi esserci un unico grande "responsabile", quell'Enzo Ferrari citato a più riprese attraverso dei virgolettati, che lo fanno apparire come un oracolo dispensatore di presagi di morte.

Da molti considerato un "dittatore", più affezionato alle sue macchine che ai suoi uomini, l'imprenditore modenese concepiva l'automobilismo solo in funzione della vittoria, ed è per questo che poco tollerava la presenza di donne al fianco dei piloti o tutto ciò che non riguardasse il lavoro, conscio del fatto che "la decadenza di un fuoriclasse inizia quando anteponi altri interessi allo sport".

Più che una "Race to Immortality", il film sembra così raccontare una "Final destination", aspetto drammaticamente interessante ai fini cinematografici, ma che finisce per oscurare quasi completamente il resto, apparendo quasi come un inutile e postumo "j'accuse" nei confronti di un uomo che cosntribuì a rendere grande uno sport fatto si di pericolo e morte, ma anche di tanto altro.

29/10/2017, 13:35

Antonio Capellupo