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FdP 57 - ELIO GERMANO: "Ecco l'Italia che si mette in gioco"


Intervista all'attore protagonista di "No Borders" di Haider Rashid, documentario girato tra Ventimiglia e Roma.


FdP 57 - ELIO GERMANO:
Dopo l'anteprima a Venezia all'interno delle Giornate degli Autori, arriva al Festival dei Popoli "No Borders", il primo documentario italiano realizzato in Realtà Virtuale, diretto da Haider Rashid tra Ventimiglia e Roma.

A condurre lo spettatore in un viaggio fatto di sgomberi forzati e continue lotte, ma anche di umanità e resistenza, è l'attore Elio Germano, che con Rashid ha scritto e prodotto questo interessante doc sperimentale.

Germano ha raccontato a Cinemaitaliano.info la nascita del progetto e le questioni politiche ad esso connesse.

Il vostro viaggio parte da Ventimiglia, ma al pari di quella frontiera oggi si potrebbe citare il muro dell'Ungheria, o quello sbandierato in campagna elettorale da Trump. Tutti fenomi collegati dal filo rosso della rabbia verso l'altro, trattato come una bestia a cui "è vietato dare da mangiare". Come siamo arrivati a tutto questo?
Siamo gettati fin da piccoli in un meccanismo per cui dobbiamo superare i nostri genitori. E' un sistema di tempo verticale, in cui tutto corre, devi sacrificare oggi per ottenere domani e superare tuo padre in una competizione continua dove vince il migliore e gli altri vengono eliminati. Questo ti getta già in una situazione di paura, perchè sfido chiunque ad essere rasserenato da questa visione del mondo. E' come dire "non ti fidare di nessuno, non farti prendere dai sentimenti, devi essere freddo, cinico e tagliente e uccidere tutti". Così stiamo eliminando l'umanità. Il fatto di dover aumentare il PIL continuamente ci ha resi persone allevate alla paura. E lo stesso vale per il buonismo, che oggi serve ad ottenere consenso e a non sentirsi soli.

Ultimamente tanti documentari stanno dando voce ai migranti, mentre voi avete deciso di spostare il punto di vista, mostrando chi in genere lavora "dietro le quinte", in silenzio, senza farsi vedere...
Volevamo raccontare quel mondo che non si riconosce con questo pensiero dominante, e che reagendo per amore o con la pancia si mette in gioco. Così come un migrante lascia tutto per andare alla ricerca della propria famiglia, così c'è qualcuno che lascia il corso di pilates o la partita di Champions League per mettersi a fare i pacchetti di riso o distribuire pannolini. Ci sembravano due meccanismi che vanno nella stessa direzione, entrambi alla ricerca di una dimensione di umanità e di protezione. Abbiamo sentito centinaia di interviste di migranti e altrettante di gente che non li vuole in Italia, tutto spesso giocato sul pietismo. Ci siamo accorti che mancava proprio il punto di vista dei volontari, che come al solito sono quelli su cui questo paese si regge.

Quello che sta accadendo fuori dal Centro Baobab dopo lo sgombero è un vero e proprio atto di resistenza. Un atto con cui la politica non sembra volersi confrontare, tranne in periodi elettorali. Come ti spieghi questo scollamento tra le istituzioni e le problematiche legate all'integrazione e ai fenomeni migratori?
E' la deriva dei nostri mestieri, dal pensiero degli anni '50 che il proprio mestiere fosse utile per la collettività, ad oggi, che è diventato qualcosa con cui fotti la collettività per arricchirti alle sue spalle. Questo fa si che si realizzino più quelli interessati a fare carriera rispetto a chi persegue l'etica del proprio lavoro. Così come ci sono dottori interessati a fare soldi con interventi che non servono realmente, così ci sono politici non interessati a fare il bene delle persone ma a soddisfarsi con soldi o potere. La politica si occupa di altro, e davanti ad un'occupazione che avviene sotto casa tua, c'è chi decide di viverla da dentro e chi, abituato ad avere paura dell'altro, vede solo dei nemici potenziali. Il ruolo dell'istituzione dovrebbe essere quello di una famiglia che aiuta questo tipo di relazione, che stabilisce delle regole, ma oggi sembra schierarsi dalla parte del business. Tutte le realtà che non creano profitto sono abbandonate, ma non per cattiveria, per disinteresse.

Il cinema di impegno civile, quello alla Francesco Rosi o Giuseppe Ferrara, oggi solo pochi autori sembrano disposti a cavalcarlo ancora. Cosa ha perso la finzione rispetto al passato e come mai il documentario sembra essere l'unica strada possibile per un cinema di impegno?
La questione è fatta di tanti aspetti, ma la più importante è di natura produttiva. Fare un film di finzione è molto costoso, servono produttori che investano capitali per realizzare qualcosa che poi, parlando di questo tipo di cinema, inevitabilmente scontenterà qualcuno. Il documentario ha una vendibilità diversa, va molto su internet ma poco nelle sale cinematografiche. Ha quella carica di indipendenza che può permetterti di fare del cinema di impegno, ma il problema è che poi non riesce ad avere una distribuzione vera.

Dopo Venezia e Firenze, che strade distributive prenderà "No borders"?
A dire il vero non ci interessa molto distribuirlo in una visione classica in 2D, questa versione esiste perchè sono stati i festival a chiedercela. La vera esperienza è da farsi con il visore, quindi stiamo cercando di capire che tipo di distribuzione avrà il visore in se, come verrà recepito. Vedremo se queste società avranno degli spazi per una distribuzione alternativa e indipendenti di lavori come il nostro.

26/11/2016, 12:40

Antonio Capellupo