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HENRY CARTIER-BRESSON - Immagini del 900


Già migliaia i visitatori della Mostra allestita a Roma all’Ara Pacis aperta fino al 25 gennaio 2015. La sua esperienza prestata al cinema di Jean Renoir e non di rado alla realizzazione di documentari


 HENRY CARTIER-BRESSON - Immagini del 900
10 anni fa, nell’arco di 10 mesi, il mondo perdeva tre ineguagliabili firme della fotografia del 900: prima Helmut Newton, poi Henry Cartier-Bresson, quindi Richard Avedon. A “l’occhio del secolo”, il francese Cartier-Bresson, Roma ha dedicato una mostra di proporzioni mai viste: oltre 500 opere tra fotografie, disegni, dipinti, film, ritagli di giornali, riviste, libri, manoscritti, scombinando il percorso cronologico in cui, comunque, si articola l’esposizione e passando in secondo piano la sua celeberrima opera fotografica, cominciamo – anche per ragioni di testata – dalla sua esperienza cinematografica.

Un’esperienza breve e tutto sommato deludente anche per lui, seguita all’incontro con Jean Renoir, l’autore, tanto per intenderci, di La grande illusione, con il quale, insieme ad un collettivo di registi, firma "La vita è nostra" , un film commissionato dal Partito Comunista Francese per la campagna elettorale del 1936.
Di Renoir sarà assistente (anche se non accreditato) per "Une partie de campagne" e "La règle du jeu". Lo vediamo, però, sullo schermo, in una particina da seminarista nel primo e nei panni di un cameriere inglese nell’altro. Suoi sono, invece, tre documentari: "Victoire de la vie" del 1937 sugli ospedali Repubblicani in Spagna durante la guerra civile, "L’Espagne vivra" dell’anno successivo che affronta più decisamente la lotta contro la dittatura franchista e "Le retour" girato tra il 1944-1945 sui prigionieri di guerra e i detenuti politici. A puro titolo di cronaca ricordiamo anche "Impressions of California e Southern Exposures" del 1970.

Il primo amore di Henry Cartier-Bresson è stato, comunque, il pennello e non l’obbiettivo. Un amore certo indimenticato, se, varcati i 60 anni, si è progressivamente allontanato dal mirino della sua Leica per concentrarsi sul disegno, raffigurando ripetitivamente, in una forma quasi maniacale, il proprio volto. Lui, che si infuriava al solo sospetto che qualcuno potesse o volesse fotografarlo. 

Peccato che della sua opera pittorica non sia rimasto che qualche esemplare. Il resto, lo ha distrutto lui stesso. Ma la scuola dei suoi maestri impressionisti e cubisti Jacques-Emile Blanche e André Lothe, è stata sicuramente la sua guida concettuale nella costruzione dell’immagine fotografica. Quell’“istante decisivo”, quell’immagine unica, frutto di osservazione e pazienza, in cui la composizione si equilibrava perfettamente davanti al suo occhio. Illuminante, in tal senso, una battuta del suo stampatore Pierre Gassmann: “Se non vedeva ciò che voleva, lasciava stare” aggiungendo che raramente Cartier-Bresson faceva due o tre scatti dello stesso soggetto. Una rivelazione. È certo, infatti, che lui, i suoi provini, cioè la stampa a contatto di tutta la sequenza del rullo, non li ha mai fatti vedere a nessuno. 

Un’altra sorpresa ce la riserva il curatore della mostra Clément Chéroux scombussolando quel mito dell’”istante decisivo” che è stato per lungo tempo il “manifesto” dell’apparente unicità dell’opera di Cartier-Bresson. “Questa retrospettiva – dichiara - ha l’ambizione di mostrare che non c’è stato un solo Cartier-Bresson”. E per farlo, l’itinerario espositivo, ma anche storico, segna tre tappe basilari, tre periodi che scandiscono con grande precisione il suo percorso professionale e intellettuale. 

Appena 18nne, nel 1926, comincia – come abbiamo detto all’inizio - a frequentare i surrealisti e a dipingere, per poi avvicinarsi gradualmente alla fotografia cui si dedicherà interamente praticamente a partire dal 1931 quando, “armato della sua prima Leica”, parte per l’Italia dopo essere già stato in Africa e nell’Europa dell’Est. Tre anni dopo, nel corso di un lungo soggiorno in Messico, il battesimo ideologico con gli artisti comunisti vicini al governo che si trasformerà presto in militanza con gli scritti sui giornali di partito e l’adesione all’Associazione degli artisti e scrittori rivoluzionari.
Nel 1939 scoppia la seconda guerra mondiale, Cartier-Bresson viene arruolato nell’unità Film e fotografia ma appena dopo pochi mesi viene fatto prigioniero e deportato in Germania da dove riuscirà a fuggire solo dopo tre anni con il poeta Louis Aragon. Con la fine del conflitto – seguendo sempre la cronologia – coincide il terzo periodo bressoniano culminato nella fondazione, nel 1947, insieme a Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert, dell’agenzia Magnum, per la quale ogni aggettivo suona inadeguato. 

Dal Surrealismo alla Guerra Fredda, dalla Guerra Civile Spagnola alla seconda Guerra Mondiale e alla decolonizzazione, l’itinerario espositivo offre una doppia visione: la storia dei lavori di Cartier-Bresson, di cui mostra l’evoluzione in tutta la sua complessità e varietà e la storia del Ventesimo secolo attraverso il suo sguardo di fotografo. Dopo il “maggio francese”, il Sessantotto, che testimonia a posteriori con un reportage sui suoi compatrioti, il progressivo allontanamento dalla macchina fotografica. Muore a 96 anni, il 3 agosto 2004.

La mostra, con un percorso espositivo diviso in nove parti, copre l’intera vita professionale di Cartier-Bresson e resterà aperta all’Ara Pacis di Roma fino al 25 gennaio 2015. E’ stata realizzata e promossa dal Centre Pompidou di Parigi a cura del suo Conservatore Clément Chéroux con la Fondazione Cartier-Bresson, dall’ Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico di Roma Capitale e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Prodotta da Contrasto (suo è anche il catalogo) e Zètema Progetto Cultura in collaborazione con BNL Gruppo BNP Paribas, UniCredit, Banca Monte dei Paschi di Siena e il contributo di American Express.



Romano Milani

08/11/2014, 11:15