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Libro/film - IL CAPITALE UMANO, Virzì e Amidon


Trasposizione complessa ma (quasi) completamente riuscita per il regista italiano


Libro/film - IL CAPITALE UMANO, Virzì e Amidon
Leggendo "Il Capitale Umano" di Stephen Amidon, romanzo statunitense datato 2004 e ambientato tra il Connecticut e il mondo dell'alta finanza, tra crisi economiche redditizie per pochi(ssimi) e denaro anteposto ad affetti e ragione, a tutto si poteva pensare tranne forse al cinema rassicurante e divertente, leggero e popolare cui ci aveva fin qui abituato Paolo Virzì.

Lontano per toni e per ambientazione, il racconto di Amidon a conti fatti sembra invece essere nato per venire raccontato dal regista toscano, che insieme ai sodali Francesco Bruni e Francesco Piccolo ha adattato il romanzo spostandolo temporalmente al 2010 e geograficamente all'Italia, o per meglio dire alla ricca Brianza.

Anche la struttura stessa del libro presentava non poche difficoltà, con una narrazione a più voci e una linea temporale irregolare ricca di movimenti avanti e indietro nel tempo, per costruire una tessitura allo stesso tempo complessa ma scorrevole, decisamente più ardua da raccontare che da capire.

Virzì sceglie di strutturare il suo film in tre capitoli personali (Dino, Carla e Serena) a cui fa seguire una conclusione corale, e il meccanismo - aiutato dal giusto slittamento dell'incidente da metà volume a inizio pellicola - funziona egregiamente: permane un non banale andamento del racconto, anche se diverso dalla pagina, alcuni dettagli si modificano (l'indagine della polizia è per forza di cose più rapida, con ciò che ne consegue) ma la rappresentazione di quel mondo resta ugualmente efficace.

Ci sono momenti creati dagli sceneggiatori che sono delle vere perle (un paio affidate al personaggio di Valeria Bruni Tedeschi, come la rotonda in retromarcia e la battuta sussurrata e quasi involontaria 'cos'è la polizia?'), qualche modifica ininfluente ma curiosa (ad esempio nel libro l'oggetto della ristrutturazione è un cinema, nel film diventa un teatro), altre volute e ponderate (Virzì ha spiegato come nel passato di Giovanni/Gifuni non ci potesse essere una famiglia umile, così come invece nel libro, perché in Italia la ricchezza e il potere sono riservati alle famiglie che già li detengono).

Spiace constatare che dopo aver risolto egregiamente le problematiche maggiori il film si conceda alcuni scadimenti "aggiunti", come (restiamo sul vago per non rivelare troppo) la richiesta aggiuntiva e ricattatoria del bacio, o il (relativamente) buonista doppio finale.
E poi la macchiettistica caratterizzazione politica (il Va' Pensiero nella suoneria del gretto assessore lumbard), facile bersaglio ma totalmente inutile: Amidon si guarda giustamente bene dal connotare responsabilità a questa o quella parte, la politica nel suo racconto è assente e impotente, il Denaro è superiore.

Infine, ma era inevitabile, Virzì decide di elidere totalmente le lunghe pagine sul passato dei tre co-protagonisti adulti principali: se il ritratto di Dino Ossola e Carla Bernaschi tutto sommato ne resta intoccato (lui è comunque uno squallido personaggio che cerca di ritrovare in ogni modo la passata e perduta agiatezza economica con i 'contatti' giusti, lei è una moglie trofeo svuotata di passione e di senso della realtà), a rimetterci di più è proprio Giovanni Bernaschi. Magnificamente interpretato da Fabrizio Gifuni, il suo Giovanni è però troppo monolitico nella sua ricerca del denaro e del successo, contrariamente a Quint Manning di cui rimane la pervicacia ma si perde la (relativa) umanità.

13/01/2014, 10:00

Carlo Griseri