banner430X45

Note di regia di "Lezuo"


Note di regia di
Nel 1843 Andrea Lezuo, intagliatore nativo di Arabba, paese ladino del Lavinallongo, parte per “la Merica” sulla nave Ehon.
L’idea della realizzazione di “Lezuo” nasce dopo la lettura di alcune epistole spedite da Andrea a suo fratello durante il viaggio oceanico verso il cosi detto “Nuovo Mondo”, gli Stati Uniti d’America. L’emigrante intraprende la sua traversata partendo da Trieste, poi arriva a Vienna, Amburgo e Rio de Janeiro dove lavora come intagliatore alla corte dell’Imperatore Dom Pedro II. Prosegue per Boston e New York per fare ritorno al suo paese nativo nel 1847. Benchè austriaco di madrelingua ladina Andrea scrive le sue lettere in un italiano popolare, in quanto l’italiano è nell’ottocento a Livinallongo la lingua di scolarizzazione .

“Il mare sono sanza fondo che non sono timore dali scoli laqua sembra inchiostro per la sua infinita fondeza le onde come montage con una spiuma bianca in cima... non sono...grebiani o crode cosi sembra l’onde quando sono alte di nuovo discende...e fondano un buco simile alla altezza che aveva e prende fuga e salise de altra parte e scontra daltre e fano grande rumore e spiuma ed il bastimento asende e disende...immaginatevi o miei cari che vista spaventosa per trovarse di nuovo nel profondo circondato da date”

Di queste lettere, che si trovano ora esposte nel museo ladino di Pieve di Livinallongo, colpisce la minuziosità delle descrizioni che contengono al loro interno una curiosa commistione di realtà e immaginazione. Come scrive il professor Emilio Franzina nel suo saggio “Le traversate e il sogno”, dalle parole di Andrea traspare una certa consapevolezza per quello che sarà un viaggio di rigenerazione verso un mondo nuovo, mai visto veramente ma sognato come qualcosa di diverso e imprevisto rispetto a quello lasciato in patria.
Un aspetto importante per la realizzazione del film “Lezuo” risiede nella curiosità verso il grado immaginativo di un’ epoca in cui doveva ancora prender piede l’invenzione del cinematografo, che avverrà solo alla fine del diciannovesimo secolo. Chi infatti decideva di imbarcarsi verso il Nuovo Mondo,”La Merica” come veniva chiamata, aveva la possibilità di immaginarla solo partendo dai così detti cosmorami, ovvero delle pitture “animate” attraverso dei mezzi ottici che venivano esposte dalle compagnie navali nelle piazze delle città durante le feste per invogliare il popolo alla partenza.
Rispetto alla nostra contemporaneità, l’immaginazione dell’epoca era di certo maggiormente svincolata dalla potenza dei mezzi meccanici di riproduzione, rappresentati dalla fotografia, valorizzata esclusivamente nel suo scarto oggettivizzante a discapito della altre atri. Il cinema, nonostante i suoi precursori, alcuni più leggendari come il teatro delle ombre cinesi , altri più vicini tecnicamente come i prototipi pre-cinematografici, dalle lanterne magiche alle camere ottiche, per potersi affermare, non aveva ancora raggiunto l’ultimo tassello per la perfetta mimesi meccanica dell’uomo con il reale: il movimento. Lo farà di lì a poco.
In qualche modo il film cerca di ritrovare questa dimensione visiva incerta, traballante e allo stesso tempo occulta, misteriosa, viva, ormai perduta, attraverso una proposta estetica che si realizza nella commistione tra forma e non forma, tra il conoscibile e l’irriconoscibile, tra la realtà e l’immaginazione. Sergej Michajlovic Ejzenštejn:

“A generare il colore è la musica dell’oggetto....se non impariamo a vedere in tre arance su un pezzo di terreno erboso non solo tre oggetti poggiati sull’erba, ma anche tre macchie arancione su uno sfondo comune verde, sarà impossibile pensare ad una qualunque composizione a colori”

Vanno in questa direzione le scelte della bassa definizione del formato Mini Dv, così come il quattro terzi e la scelta di filtri analogici, quali vecchi fotogrammi di pellicole super8 e 35mm, gelatine, vetri e lenti fotografiche, sfere trasparenti e spugne. Applicati all’ottica della camera, frammentano e decostruiscono paesaggi visivi già filmati. Tutte le immagini ri-filmate appartengono infatti all’archivio video della rete, in qualche modo classificabili come found footage. Come scrive Mario Verdone a proposito di Ginna pittore futurista:

“Nei suoi quadri c’è un concetto di distruzione , come in quelli di tutti gli artisti dell’avanguardia: ma è sua intenzione farne sfavillare lo spirito”

Nella necessità di ripercorrere quello che fu in qualche modo un viaggio iniziatico, il film indaga la fisicità dei suoi elementi, si prepara insomma a conoscerne la materia, parte dal reale, se ne allontana e lo ritrova, in una dialettica continua, Bèla Balàzs :

“Voi amate la materia con cui lavorate. Pensate a essa anche quando non l’avete proprio tra le mani e con essa accarezzate dei progetti. Questo “accarezzare dei progetti” è già teoria (solo il termine suona cosi brutto). Voi amate la materia, ma questa ricambierà il vostro amore solo se la conoscerete.”

Con queste tecniche artigianali, pittoriche, si arriva a fabbricare manualmente il film. L’attuale realtà ri-produttiva invece, tendendo all’onnipotenza, inseguita affannosamente dalle costanti innovazioni tecnologiche, si pone ad una certa distanza dalla realtà. Nell’ illusione di conoscerla, riproducendola sempre più fedelmente, se ne allontana.
Dopo la prima guerra mondiale, venuta meno l’idea di un equilibrio divino, Dio è morto secondo Nietzsche, causa l’estrema consapevolezza della morte dovuta ad una serie impressionante di uccisioni e perdite, una sempre maggiore idea di finitezza e conseguente perdita di fiducia nell’aldilà, l’uomo ha sempre cercato di rimpiazzare questo ideale divino. Dalle fedi irrazionali nei nazionalismi fino alla nostra completa devozione all’occhio, alla visione, alla riproduzione del reale dei grandi dispositivi. è come se il cinema dovesse colmare orrifici sentimenti di vacuità eterna attraverso un costante stato di gestazione informativa, onnipotente e onnipresente come un’entità superiore, Dio appunto. La finitezza, direbbe Heidegger, permette di distinguere il significato di quanto altrimenti sarebbe effimero. La scelta estetica del film, in quanto consapevole, rappresenta dunque un atto politico.

Giuseppe Boccassini