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FdP 54 - EU 013, L'ULTIMA FRONTIERA - Il doc nei Cie


La testimonianza di Alessio Genovese autore del documentario sui Centri di Identificazione ed Espulsione.


FdP 54 - EU 013, L'ULTIMA FRONTIERA - Il doc nei Cie
Il regista Alessio Genovese
Presentato a Firenze il documentario di Alessio Genovese che mostra la realtà dei Centri in cui gli immigrati irregolari vengono trattenuti anche per 18 mesi. Una situazione di cui si comincia a discutere nel paese, con la convinzione sempre più diffusa che una legge repressiva e coercitiva non possa essere la soluzione al problema dell'immigrazione.

Qual è stata la reazione degli "ospiti"?
I così detti ospiti di queste strutture sono persone, uomini e donne, che quasi mai capiscono il senso della loro trattenimento. Non deve essere semplice accettare di essere privati della propria libertà personale per non aver commesso niente. La condizione di irregolarità non è un reato bensì un illecito amministrativo. Finire in un CIE per 18 mesi rafforza in loro la convinzione di essere vittime di un'ingiustizia. La prima reazione, alla nostra presenza, è stata quella di cercare di attirare l'attenzione, farsi vedere da dietro le sbarre delle celle, gridare per farsi sentire da dietro i muri. Abbiamo cercato in tutti i modi di evitare di riproporre il solito immaginario, per farlo siamo dovuti entrare e passare del tempo dentro. Ho parlato e spiegato l'idea del nostro lavoro chiedendo a tutti di tornare alla loro vita "normale". Come prima cosa abbiamo cercato di entrare nello spazio e nel tempo del CIE, cercando di far perdere le tracce della nostra presenza. Devo dire che tutti hanno capito e rispettato l'idea e il nostro modo di lavorare.

Quali sono i motivi che di più, rispetto alla legge vigente, portano all'espulsione?
In realtà si potrebbe parlare dei motivi che non portano all'espulsione. Se c'è una cosa che ormai è chiara a tutti, autorità e forze di polizia comprese, è che il sistema così non funziona. Oltre il 60% delle persone che transitano da un CIE vengono rilasciate con un foglio di via allo scadere dei 18 mesi. Questo significa che, dopo un anno e mezzo, ricomincia tutto d'accapo. Il principale motivo delle non espulsioni è la mancata collaborazione dei consolati quando si tratta di persone che risiedono da lungo tempo in Italia o che sono passate per il carcere. Anche quando escono dal CIE con un l'ordine di lasciare il territorio nazionale, non possono tornare nei paesi d'origine. Non riuscendo, neanche, ad andare legalmente in un altro stato europeo, rimangono incastrate in questo meccanismo perverso senza avere la possibilità di migliorare la propria condizione. E' come se, per loro, la realtà fosse una protesi del CIE da cui non riescono a liberarsi. Ad un certo punto del film, Lasaad, una delle voci più interessanti che incontriamo, descrive questo sistema come un ergastolo bianco.

Come avete fatto per rispettare la legge sulla riservatezza (privacy)?
Abbiamo chiesto di firmare le liberatorie a tutte le persone riprese. Il Ministero dell'Interno ha prodotto un decreto per autorizzarci all'ingresso nei CIE, in questo documento erano presenti delle sorte di linee guida per il trattamento degli "ospiti" e delle immagini degli spazi, le abbiamo rispettate.

Quanto a lungo avete girato?
La fase delle riprese è durata un mese esatto per un totale di 19 giornate. Abbiamo avuto la possibilità di girare per un massimo di due giorni consecutivi per location, il resto del tempo se ne è andato in viaggi da un posto all'altro. Il Ministero ci aveva dato delle date ben precise da rispettare. L'intero decreto durava tre mesi e parlava di un massimo di due giorni consecutivi per CIE, rimettendo l'ultima parola alle Prefetture coinvolte. Il primo mese e mezzo l'abbiamo passato ad organizzare gli ingressi con le Prefetture. Non è stato semplice. Noi eravamo conviti di avere la strada spianata dall'autorizzazione ministeriale, invece, non era così. Ogni Prefetto decide autonomamente e ha sempre la possibilità di appellarsi a motivi di ordine pubblico e sicurezza per rimandare o annullare la visita. Man mano che il tempo passava vedevamo ridursi il nostro margine d'azione. Abbiamo ragionato giorno per giorno. Ogni volta, nelle poche ore che avevamo a disposizione, dovevamo portare a casa un tassello della nostra storia. La stessa idea di racconto e narrazione si è dovuta adattare a queste esigenze. Non abbiamo mai avuto la possibilità di approfondire e seguire la storia di un personaggio in particolare. Quello che si stava delineando era un racconto collettivo, prendere o lasciare.

In quanti centri di espulsione siete stati?
Il decreto ci autorizzava ad entrare in 8 strutture. Hanno collaborato con noi, rispettando i tre mesi di durata del decreto, soltanto le prefetture di Bari, Roma e Trapani.

"Visto che non è solo un problema di flussi marittimi dal sud del mediterraneo, ma anche, come dice la funzionaria di polizia intervistata, di turisti che si trasformano in altro, quale soluzione emerge dal vostro documentario?
Ancora è troppo presto per parlare di soluzioni. Questo è un fenomeno che deve poter arrivare agli occhi della gente per poter essere superato. Abbiamo tentato di descrivere, al meglio, questi luoghi e le dinamiche che li governano in modo da dare un idea visiva al pubblico. In questo senso, il documentario vuole diventare pratica esperienziale per l'intera società, strumento di analisi e conoscenza capace di interrogare la politica. Io racconto storie, non ho soluzioni.

Diciamo che un punto di vista oggettivo, non esiste. Qual è il vostro giudizio sulla vicenda dell'immigrazione irregolare?
Il giudizio non può che essere negativo rispetto alle politiche che governano l'immigrazione, in Italia e in Europa. Questo è un sistema che produce irregolarità e che criminalizza il viaggio. A volerlo analizzare bene, con dati e numeri alla mano, considerando anche gli altissimi costi economici, non si riesce a capirne la logica. Noi spendiamo per allontanare ed espellere e non ci riusciamo. Nel frattempo ci siamo impoveriti e abbiamo militarizzato la gestione di questo fenomeno. Un fenomeno che è e resterà umano, sociale. Ce lo dice un Questore della Polizia di Frontiera all'inizio del film: "non esiste un modo per fermare un movimento migratorio".

Quale sarà il percorso del documentario? Festival, Cinema, tv?
Il 2 dicembre saremo al Festival dei Popoli a Firenze per la prima mondiale. Siamo contentissimi di esserci, per noi è un gran risultato. Sarà una bella festa! Speriamo che l'esperienza dei festival continui, all'estero magari. Questa è una storia italiana, ma anche europa, perché le dinamiche hanno a che fare con noi, con i nostri luoghi con la nostra identità, ma è anche una storia universale che può essere portata in giro in tutto il mondo. Racconta bene l'incapacità dell'uomo di svincolare la propria identità da una appartenenza ideologica. Contiamo di portarlo in TV, anche fuori dall'Italia. Il cinema è stato il nostro spazio ideale durante tutto il processo di creazione del film, siamo consapevoli che non sarà una cosa facile portare un documentario del genere nelle sale ma ci vogliamo credere.

30/11/2013, 11:50

Maria Di Lauro