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Note di regia del documentario "Densamente Spopolata e la Felicita"


Note di regia del documentario
Siamo cresciuti con le storie dei nostri padri e dei nostri nonni. Storie contadine che parlavano di terra e cielo, di greggi e di grano, di uomini e donne al lavoro, di canti e di feste, di morte e dolore, di un mondo vivo e immutabile. Siamo cresciuti così, con la nostra fantasia bambina accesa da racconti barbari, da nomi di luoghi e personaggi che tornavano alla mente con un fascino oscuro e impenetrabile, nomi che non abbiamo più dimenticato. Siamo cresciuti con un immaginario grande quanto quel misero pezzo di Murgia in cui il nostro sangue si è fatto, quel pezzo di terra che per noi era quasi più del mondo stesso. Siamo cresciuti così, innestandoci sul nostro ceppo.
E mentre crescevamo, tutto intorno cambiava per sempre. Erano gli anni Sessanta e Settanta, e già i nostri padri abbandonavano le terre e i nostri nonni restavano soli a custodire un patrimonio culturale, sociale ed economico che appariva ormai vuoto. Le città si ingrossavano, le fabbriche pure. Poi ci pensarono gli anni Ottanta, con la diffusione della televisione commerciale e del feticcio della merce, a innescare un processo di mutazione antropologica devastante. Un mondo intero, quello contadino, è scomparso, travolto dall’onda d’urto di un nuovo immaginario fatto di marchi, paillettes, luci strobosferiche e dio denaro. A quel punto siamo cresciuti così tanto che non sapevamo più chi eravamo stati e da dove venivamo.
E siamo andati incontro al mondo così, dimentichi di noi stessi, rapiti dalla curiosità per la vita, affascinati dalle città, dalle occasioni, dagli incontri, partecipi delle trasformazioni selvagge del reale. Abbiamo camminato per quanto potevamo, senza fatica, per le strade del mondo. Eppure qualcosa ci molceva il core, qualcosa che non sapevamo dire. È stato allora che abbiamo assaporato per la prima volta l’amarezza del perdersi, del non incontrarsi, del non capirsi. Abbiamo scoperto la solitudine e l’inappartenenza, ci siamo ritrovati in un corridoio sfavillante di un ipermercato affollato irrimediabilmente perduti.
E ci siamo difesi, come potevamo. Con la musica, con i libri, con il cinema. E poi dopo con la politica, con l’ideologia. Abbiamo costruito percorsi di resistenza e nuovi immaginari per altri mondi possibili. E lungo questo cammino ci siamo lentamente ritrovati e compresi. In pochi, certo. Perché intanto, camminando, abbiamo dovuto imparare a riconoscere le sconfitte, i tradimenti, il vuoto degli slogan, il baronaggio culturale, la mercificazione del pensiero. In pochi, ma senza perderci d’animo. Perché intano, lungo la via, abbiamo ritrovato i nostri padri, i nostri antenati. Erano nelle pagine di Pavese e nei versi di Scotellaro. Erano gli uomini e le donne delle pellicole di De Seta. Erano negli sterminati campi d’America di Terrence Malick. Erano nei canti di Matteo Salvatore. Erano con Di Vittorio nelle lotte per la terra e per il lavoro, e nelle riflessioni di Gramsci che dal carcere di un paesino della Puglia irradiavano il futuro del mondo. E ancora più indietro, nella guerra di resistenza che trasformò i nostri progenitori da contadini in briganti. Tante storie e tante altre ancora da raccontare, che pian piano sono riemerse dal fondo della nostra memoria, come pietre dissotterrate dal vomere.
È andata proprio così. Che un giorno, stanchi delle nostre stanze, dei nostri schermi, dei nostri telefoni, siamo saliti in macchina e abbiamo preso verso occidente, incontro al corso del sole, lasciandoci dietro le città, il traffico, le infinite connessioni della nostra modernità. Abbiamo preso sempre la via meno battuta, quella con l’asfalto malandato, quella senza indicazioni, quella deserta. Abbiamo proseguito senza meta, tra campi sterminati, masserie abbandonate e ferrovie in disuso. Quando il sole ha iniziato ad abbassarsi abbiamo lasciato l’auto e siamo saliti in cima a una collina. Dall’alto, lo sguardo si apriva all’altopiano murgiano. In lontananza, in basso, tanti puntini bianchi si muovevano all’unisono confondendosi con il bianco delle pietre calcaree, e un puntino scuro in testa, il pastore. Gli siamo andati incontro. Anche noi, infine, siamo tornati alla casa del padre.

Francesco Dongiovanni