Intervista a Daniele Vicari sul film "Il Mio Paese"


Intervista a Daniele Vicari sul film
Il regista Daniele Vicari
Il documentario ha come centro principale la città di Prato. Come ha descritto la comunità cinese presente nella città toscana?
Daniele Vicari: Non vi è contrasto tra pratesi e cinesi. La chiave di lettura di questa cosa qui la fornisce un imprenditore quando dice che "l'economia è finita quando abbiamo smesso di fare quello che fanno i cinesi a Prato". Se interpreto bene quello che lui voleva dire è che i cinesi non stanno facendo cose tanto diverse da quelle che facevano i pratesi: lavorano molte ore al giorno, risparmiano tutto quello che lavorano ed investono tutto quello che guadagnano nel lavoro. In questo modo il lavoro cresce e si svilluppa facilmente. Hanno una politica dei costi bassi, stanno molto insieme, le aziende sono familiari. Da questo punto di vista sembra esserci una continuità. Per questo ho voluto mettere le parole del libro di Edoardo Nesi sui pratesi più che quelle dei cinesi, quando evoca i pratesi con il carretto, con l'ape che portano i filati. Probabilmente, per questo, non è un caso che i cinesi siano a Prato. Io però non sono un sociologo, io queste cose le ho solo interpretate cinematograficamente.

I testimoni che documentano le immagini pratesi sono tutti italiani, non ha pensato a qualche testimone cinese?
Daniele Vicari: Ho provato a lungo ad avere i cinesi nel film. Volevo raccontare la storia di una ragazza cinese che si doveva sposare, una storia molto bella. Però all'ultimo momento si sono ritirati e non hanno più voluto rilasciare testimonianze.

Vi è una scena del film girata nell'area industriale del Macrolotto di Prato, in cui riprende i cinesi dentro le confezioni che guardano increduli il suo obbiettivo. Ci può spiegare come ha realizzato questa sequenza?
Daniele Vicari: Erano sorpresi perchè una telecamera li riprendeva. Ho fatto una cosa un po' sleale, perchè li ho quasi spiati. Io in realtà volevo riprendere i negozi, che sono sempre molto pieni e mi piacciono tanto per questo. Infatti sono stracolmi di merci, sono vivi, sono gioiosi, danno un senzo di speranza di futurò che c'è, un senzo di un qualcosa che sta producendo. Anche la ragazza che fa il trucco dei fazzoletti nella scena del capodanno cinese è molto significatavi. Tira fuori stoffe di tutti i colori e l'ho montata apposta, questa scena, come una metafora della produzione industriale. Ho poi affiancato alla comunità cinese la storia della donna italiana cinquantenne che non trova lavoro. C'è un contrasto tra una parte della popolazione locale che non trova lavoro e quella cinese dove il lavoro straborda e c'è un vitalismo che sembra che noi abbiamo perso. questo mi preoccupa, perchè l'Italia è un paese giovane e non possiamo invecchiare dopo una sola generazione, non è possibile. E' una generazione che è invecchiata, non il paese. E' lo sguardo sul mondo che è vecchio e quindi tutti siamo convinti di essere un paese vecchio. Un paese non può invecchiare dopo sessat'anni che è nata la democrazia! Non ci posso credere!

Come mai ha scelto proprio la città di Prato, che nel documentario di Ivens "L'Italia Non è un Paese Povero" da cui a preso spunto per girare "Il Mio Paese" non c'era?
Daniele Vicari: In realtà nel documentario di Ivens era ambientato a Firenza nella "Nuova Pignone". Io volevo raccontare inizialmente la storia di questa azienda, anche per tutta la privatizzazione che c'è stata, però poi mi sono accorto che la vicenda di Prato è molto più emblematica. Prato è un sistema industriale, la "Nuova Pignone" è una fabbrica. Prato è il distretto industriale per eccellenza. Ho quindi preferito rapprresentare la "città industria". Prato è ed era il modello industriale italiano per eccellenza. Prato, poi, è esplosa dopo gli anni sessanta, prima era il luogo dove si recuperava gli stracci. Dopo è diventata una cittò straricca in cui c'era lavoro per tutti e non bastavano quelli che vivevano in città, tant'è che si è poi quasi triplicata. E' la classica città italiana...

Classica città italiana anche per il lavoro in nero, ed oggi per la crescente immigrazione...
Daniele Vicari: A Prato ci sono tutte le contraddizioni che vive tutto il paese. Prato è una metafora dell'Italia. Per questo nel film ha un ruolo molto importante e centrale. L'episodio sulla città toscana è il più lungo del documentario, mi pare sia di oltre venti minuti.

La scelta di Edoardo Nesi è stata un'auto candidatura o è stato lei a sceglierlo?
Daniele Vicari: Ho finito il film parlando con lui, cioè scavando negli argomenti tracciati da Edoardo anche nel suo libro "L'Età dell'Oro". Conoscevo, già, Nesi e leggendo il romanzo l'ho usato come una riflessione globale e complessiva di cosa stava accadendo in questa città.

Quindi, l'idea iniziale del documentario era molto diversa prima dell'incontro con Edoardo Nesi?
Daniele Vicari: No, non era molto diversa. Quando uno parte sa dove andare a parare. Incontrare Edoaardo, ma anche Gianfranco Bettin, mi ha permesso di avere una visione più chiara. Le cose che hanno detto con grande semplicità sono le cose che penso io.

Ha iniziato le riprese del documentario dalla Sicilia, come è stato montato, o dalla fine, cioè da Prato e Porto Marghera?
Daniele Vicari: Ho fatto una grande ricerca prima di iniziare a filmare, poi Nesi e Bettin li conoscevo già personalmente. Molte cose che loro hanno detto me le avevano dette già prima d'iniziare le riprese. Con loro abbiamo messo a fuoco molto argomenti. C'è stato un grande lavoro di preparazione. La realtà siciliana è la più stridente. La promessa di sviluppo industriale a Gela a prodotto una realtà molto contrastata. Da una parte lo sviluppo e dall'altra una sorta di sottosviluppo, di difficoltà. Quel territorio lì è molto devastato ed è ben rappresentato dal dialogo che ho ripreso nel cantiere e dall'immagine del treno che ci mette quattro ore per andare da Gela a Palermo. Quest'ultima è una cosa pazzesca. Non avrei mai immaginato che nel mio paese ci fosse una cosa del genere, sembra di stare sulle Ande! Per fare 150 Km ci mette quattro ore e mezza. In Sicilia sono stato più addosso alle cose, più addosso agli oggetti, più addosso alle fabbriche. Il documentario ha preso una strada più complessa e dovevo far parlare le persone che incontravo.

Si nota anche che il livello culturale delle persone che parlarano cresce man mano che il documentario va avanti...
Daniele Vicari: Certo. Il documentario parte in maniera semplice poi cresce. Non avrei però mai appiattito il film mettendo per ogni luogo un intellettuale. Inoltre, come Nesi, non ho scelto intellettuali "astratti" ma quelli che svolgono anche un ruolo sociale. Nesi è uno che produce, ha anche una fabbrica. Bettin ha amministratoa nche la città. Non parliamo di gente che scrive stronzate sui giornali, che la mattina scrive un articolo e basta senza sapere di cosa parla. Parliamo di gente che si sporca le mani con la produzione ed i problemi che viviamo ogni giorno. Non sono gli intellettuali da salotto, ma intellettuali veri.

Ci parli della scena della famiglia povera di Grottole descritta da Ivens e ripresa nel suo film.
Daniele Vicari: La nonna di Grottole della famiglia del mio documentario è la mamma dei bambini e gli altri sono i suoi figli. Il bambino che si vede ricoperto di mosche nella scena del'59 è morto. Sono entrato in casa loro dicendogli che avevo ritrovato le loro vecchie immagini e ho messo la cassetta nel lettore video. Loro si ricordavano solo dei frammenti di quel periodo gliel'ho mostrato senza fargli nesuna domanda in merito. Ho notato in loro lo stupore, la gioia di rivedersi, la paura... Questa parte del documentario di Ivens era stata censurata all'epoca dalla RAI. Era poi stato mostrato in seguito rimontato con la voce di Arnoldo Foà. Nella mia versione che ho ritrovato la voce è di Enrico Maria Salerno. Avevano riscritto completamente tutto...

Che differenza c'è tra l'Italia descritta da Ivens nel suo documentario e quella che hai descritto in "Il Mio Paese"?
Daniele Vicari: Gli italiani del'59 avevano una grande aspirazione per il futuro, oggi tutti noi siamo più prudenti, abbiamo più paura.

Questo film è un po' un apologia sull'Italia...
Daniele Vicari: E' una riflessione sull'Italia di oggi, su cosa accade a me nel "mio paese" e su cosa accade nel "mio paese" in questo momento. Perchè accade proprio questo, che domande ci stiamo facendo. E' questo un po' il senso del film. Lascio un dibattito aperto, perchè nessuno ha le risposte. Le risposte vanno trovate faticosamente tutti insieme.

Il documentario è stato girato tra il 2005 ed il 2006. Quanto materiale avete raccolto?
Daniele Vicari: Tra sopralluoghi ed altro abbiamo raccolto un 200 ore di materiali ed anche oltre.

Cosa avete prediletto nel montaggio di queste 200 ore?
Daniele Vicari: Le cose più convincenti, le cose più pregnanti, le cose più sinteticamente forti. vi sono inoltre una decina di episodi che non ho montato.

E' stato quindi fondamentele anche l'apporto di Benni Atria al montaggio...
Daniele Vicari: Benni è un montatore paziente ed un grande montatore del suono...

Ci può parlare brevemente del progetto del "Il Mio Paese 2.0"?
Daniele Vicari: Raccoglieremo materiali inviatoci dai filmaker italiani. E' un progetto multimediale Vedremo quale sarà la loro risposta. Se avremo del materiale interessante lo faremo. Sarà un documentario molto particolare, non potrà essere un lavoro lineare. Non sappiamo ancora se monteremo il materiale inviatoci o lo sovraporremo. Voglio utilizzare i mezzi che l'informatica ci mette a disposizione, dovrà essere un film non con un inizio ed una fine, ma con vari livelli dove si possa passare da una cosa ad un'altra senza avere una continuità.

Quasi un'autoproduzione "popolare"?
Daniele Vicari: Io voglio solo coordinarlo, non metterci mano. La mia utopia è che diventi un contenitore di tutti i punti di vista possibili sul destino del nostro paese, dal punto di vista sociale, culturale, ambientale, privilegiando l'aspetto della politica culturale, cosa che mi sarebbe piaciuto inserire nel documentario ma non ho potuto.

Quali sono gli scenari più importanti da rappresentare dopo Gela, Melfi, Prato, Porto Marghera, etc.?
Daniele Vicari: In Italia c'è l'imbarazzo della scelta. La riconversione della città di Torino è uno degli scenari che mi affascina di più. Da città industriale classica, da città del terziario sta diventando una delle opere umane più straordinarie ed emozionati dell'occidente. Io ho già fatto un film su questo argomento, insieme a Chiesa, che si intitola "Non Mi Basta Mai", che racconta questo. E' qualcosa di straordinario, Marghera è molto più indietro. Con le olimpiadi questa città ha dimostrato qualcosa a se stessa. Prima era la città più triste d'Europa, una di quelle città che di notte non sentivi volare una mosca. Oggi Torino è godereccia, piena di locali. Non è mica unh passaggio di poco conto. La Fiat, tornado in crisi, aveva messo in crisi anche la città, ma superata questa Torino si è accorta che questa industria ha un impatto irrilevante.

Come si nota dal documentario, forse, si nota una maggior importanza di questa azienda a Melfi?
Daniele Vicari: A Melfi è l'unico luogo dove si può ricavare qualcosa...

18/04/2007

Simone Pinchiorri