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Giorgio Diritti: "Non ho fatto un film ne storico
ne bellico, ma ho raccontato una storia di persone
semplici che vedono arrivare la guerra"


"L'Uomo che Verrà", ultimo capolavoro di Giorgi Diritti, una storia su una delle più grandi tragedie delle Seconda Guerra Mondiale raccontata con maestria da uno dei migliori registi italiani degli ultimi anni. "L''idea del film era di raccontare come la guerra è stata capace di entrare nelle case della gente".


Giorgio Diritti:
Alla luce del “caso cinematografico” che ha caratterizzato “Il vento fa il suo giro” e di questo secondo film, così intenso e adulto le chiedo, dove è stato Giorgio Diritti per tutto questo tempo?
Giorgio Diritti: Sono stato all'interno di due anticamere. Una è quella di tanti produttori che non hanno voluto prendere seriamente in considerazione i miei progetti. Poi sono stato nella mia stessa anticamera, in attesa che qualcuno mi desse quell'opportunità che invece era fondamentale che io stesso mi costruissi. Il mio modo di intendere il cinema mi obbliga per forza a passare anche da un meccanismo di produzione e dimostrare con i fatti le caratteristiche del mio lavoro.

Da qualche giorno ha avuto inizio il tour di promozione de “L'Uomo che Verrà”. Tra le prime tappe c'è stata proprio Marzabotto, la vera protagonista della pellicola. Che tipo di risposta ha avuto da parte dei familiari delle vittime e dei partigiani?
Giorgio Diritti: E' stato molto emozionante, molto forte e molto arricchente, perchè è come se avessi raccolto il loro dolore, lo avessi elaborato e restituito in modo che potesse diventare qualcosa di utile per il mondo. Dall'esperienza tragica di Marzabotto, la comunità ha elaborato il concetto che non sarebbe più dovuto accadere niente di simile e che bisognava lavorare per i valori di pace. Il film è nelle loro corde. Hanno apprezzato molto, seppur facendo un percorso doloroso nell'osservarlo, la rappresentazione della dimensione della vita di allora e il fatto che il film non sia storico o bellico, ma semplicemente una pellicola che racconta uno spaccato di persone semplici che vedono arrivare la guerra.

Tra le tante anomalie che ruotano attorno alla storia di Marzabotto, non va dimenticato che nonostante la strage fosse avvenuta nel 1944, gli ultimo processi risalgono al 2007 e 2008. E' normale tutto questo?
Giorgio Diritti: Non è normale, ma fa parte di una storia italiana ed europea piena di contraddizioni. A causa della cosiddetta guerra fredda, gran parte dei servizi segreti tedeschi e in alcuni casi delle S.S., sono stati assoldati dalla CIA per contrapporsi alla paura del comunismo. Negli armadi sono finiti un sacco di documenti di persone che hanno partecipato alle stragi e di cui si conoscevano nome e cognome. E' stato tutto un po' occultato ma per fortuna, anche a distanza di sessanta anni, si è arrivati a fare un processo. Per le famiglie dei sopravvissuti questo è stato il primo vero riconoscimento da parte dello Stato, del loro dolore e della loro tragedia. Paradossalmente i partigiani hanno avuto delle medaglie al valore ma i familiari oltre a non avere nulla, si sono trovati nella condizione di dover nascondere i loro racconti perchè giunsero loro minacce dalla Germania e dall'Italia.

In che momento del processo creativo ha pensato che il miglior punto di vista sarebbe stato quello di una bambina?
Giorgio Diritti: Ho ascoltato e letto molte storie su Marzabotto. Erano sempre storie di famiglie e mi è sembrato giusto avere al centro della narrazione un nucleo familiare. Poi da bambini si ha sempre il desiderio di scoprire il mondo e guardarlo con occhi diversi. Vorremmo diventare adulti e abbiamo l'ansia di comprendere tutto. Mi è sembrato un modo interessante per svelare anche le contraddizioni degli adulti e a quel punto è nata Martina. Poi va detto che i bambini morti a Marzabotto sono più di duecento e questo mi sembrava significativo, perchè lo sguardo della bambina diventa lo sguardo di tutti gli altri. I sopravvissuti sono altri bambini che nell'ammasso delle sparatorie si sono salvati perchè i corpi degli altri li hanno protetti.

Come già aveva fatto ne “Il vento fa il suo giro”, il film inizia con una sequenza che tornerà nel finale, quasi volesse segnare una sorta di ciclicità temporale. Perchè è tornato su questa scelta?
Giorgio Diritti: C'era un'idea in sceneggiatura anche più complessa, una Martina ottantenne che partecipa al processo di La Spezia del 2007. Poi la forza di una bambina così straordinaria e il lavoro in ripresa rispetto al '44, mi ha fatto pensare che la parte moderna sarebbe risultata didascalica e inutile. L'idea dell'ellissi temporale iniziale l'ho mantenuta perchè era un modo di dare la sensazione di qualcosa che si sospende e crea attesa. Al termine del film, quando la si rivede fuori da sola, avviene l'ellissi di ciò che abbiamo precedentemente visto.

Uno degli elementi più convincenti del film è stata la scelta del dialetto bolognese, che ha detto di aver scelto a sole due settimane dalle riprese. Come mai si è convinto così in ritardo e che tipo di risposta si aspetta dal pubblico?
Giorgio Diritti: Credo che da questo punto di vista il film sia molto fruibile. Il mio cinema non è fatto di grandi dialoghi e se lo fosse sarebbe anche faticoso riuscire a leggere e questo farebbe perdere la dimensione poetica. La scelta definitiva è arrivata quindici giorni prima per un pudore produttivo. Avendo fatto il primo film in occitano, poteva esserci l'idea che facessi solo film in dialetto. Il film è coprodotto da Rai e distribuito da Mikado e su questo aspetto non erano proprio entusiasti. Poi con un po' di difficoltà, prima hanno accettato la scommessa e dopo aver visto le prime immagini si sono convinti che fosse la scelta giusto.

Ne “L'Uomo che Verrà”, come già nel suo precedente film, i volti scelti non sono mai perfetti, e spesso risultano quasi duri e spigolosi, riuscendo a restituire ulteriormente un'idea di realtà. Quanto è presente Diritti in fase di casting?
Giorgio Diritti: Faccio quasi tutto il casting. Dico quasi perchè in certi casi sono tante le persone da vedere e magari ci dividiamo in due stanze, ma ad esempio le centinaia di bambini presenti nel film li ho scelti vedendoli uno ad uno. Per me è importante l'incontro con queste persone perchè non rappresentano solo un volto, ma mi permettono di capire le caratteristiche umane e psicologiche, vicine o distanti dal personaggio che immaginavo. Il grande cinema italiano ha sempre avuto nel casting un lavoro di grande attenzione. Purtroppo oggi, forse a causa dell'esperienza delle fiction, si tende a vedere tutti belli e aggiustati. Questo forse va bene per i fotoromanzi, ma nel momento in cui si entra in una dimensione di verità e si vuole dare un coinvolgimento profondo, è bene trovare le facce giuste. Il neoralismo è divenuto importante perchè oltre alla verità delle storie restituiva dei volti che permettevano il processo di identificazione da parte dello spettatore, diventando cinema dei perdenti e non solo dei vincenti.

Il film non scade mai in stereotipi, ma il budget questa volta le avrebbe permesso l'utilizzo di effetti speciali funzionali alla storia. Ha pensato sin dall'inizio che sarebbe stato meglio lavorare di sottrazione o è un'idea nata durante le riprese?
Giorgio Diritti: L'idea era di raccontare come la guerra è stata capace di entrare nelle case della gente. La spettacolarizzazione non era necessaria, anche se in fase di scrittura avevo previsto maggiore presenza di esplosioni in lontananza. Ho lavorato di sottrazione perchè spesso gli effetti digitali rischiano di risultare finti. Devo ringraziare Ermanno Olmi che in questo mi ha dato delle buone dritte e la prima volta che gli raccontai il progetto, mi disse di non inserire neanche un canelupo e non scadere in facili stereotipi. Ho voluto mostrare anche l'umanità dei tedeschi e in questo la ferocia che si scatena successivamente è ancora più devastante, perchè inizialmente non sopraggiungono come mostri venuti per distruggere.

Ha citato Ermanno Olmi, sicuramente un modello che tiene in considerazione per amicizia e tipo di cinema. Quali sono gli altri punti di riferimento di Diritti?
Giorgio Diritti: Mi rifaccio ad Ermanno, non nel tipo di cinema che faccio, ma sicuramente nelle dinamiche e nell'approccio. Sono vicino a un certo tipo di neorealismo, ma amo anche Chaplin e Kieslowski. I due film che ho fatto hanno un grande legame con il mondo contadino e probabilmente in questo il legame con Olmi o Piavoli è evidente.

Se per l'uomo del titolo si intendesse proprio il cinema, nel periodo in cui arriva nelle sale “Avatar”, le chiedo come sarà secondo lei “L'Uomo che Verrà” ?
Giorgio Diritti: Sarà un cinema che avrà sempre elementi di spettacolarità. Penso che se il cinema emoziona, allora funziona. Il segreto è quello. Purtroppo certe volte produttori e distributori ragionano come se in base alla confezione si potesse stabilire la qualità del cibo, ma non è così. Un buon film è tale in qualsiasi genere e tecnologia, l'importante è che riesca ad emozionare. “Avatar” non mi spaventa perchè il teatro non ha avuto paura del cinema, che a sua volta non si è dato per vinto dinnanzi alla tv. La logica furba di fare un prodotto vendibile in realtà produce delle schifezze che poi non funzionano neanche. Una delle cose che si è persa è l'onestà del bottegaio: lui ti consigliava un tipo di prosciutto; se dopo averlo provato notavi che non era buono, tornavi, gli tiravi le orecchie e lui te ne dava uno buono e gratis. Questo modo di fare si è perso e ormai senti parlare di questo o quell'attore da inserire in cast, facendo operazioni che snaturano l'opera originale di tanti giovani autori e ne modificano il senso artistico. La ricetta credo sia non prendere in giro la gente.

18/01/2010, 13:30

Antonio Capellupo