Note di regia de "Il Vagabondo"
Quando mi è stato proposto di dirigere questa storia ideata dal produttore, ho avuto qualche esitazione: non avevo esperienza diretta nel genere (nonostante fosse il mio preferito) e venivo da un periodo di pausa con la regia. Tuttavia, leggendo la sceneggiatura, mi sono riconosciuto nel protagonista — un uomo intrappolato nella propria identità e incapace di cambiare. Dirigere questo film è diventato un modo di affrontare le limitazioni e ritrovare fiducia nella mia regia. La storia unisce due generi, western e thriller, fondendo la tensione morale del primo con la suspense psicologica del secondo. Credo che le storie più interessanti nascono quando i generi si contaminano, perché è proprio in quel terreno di confine che i personaggi rivelano la loro natura più autentica. Il film esplora il tema dell’impossibilità di scelta e il peso dei nostri errori. Ho scelto un linguaggio fondato sul “non detto”, dove silenzi, gesti e sguardi parlano più delle parole. La macchina da presa non è soltanto un osservatore invisibile, ma diventa un vero e proprio personaggio: respira con i protagonisti, riflette i loro stati d’animo e ne amplifica le contraddizioni interiori, traducendo visivamente ciò che i personaggi non riescono ad ammettere. La fotografia accompagna questo percorso con una luce di ispirazione caravaggesca, costruita su forti contrasti tra chiaroscuro e figura. La luce diventa un elemento morale oltre che visivo: ciò che emerge dal buio rappresenta la coscienza, ciò che resta nell’ombra, la colpa. Si passa da toni caldi e naturali nei momenti di quiete a luci fredde e contrastate nella notte, dove il fuoco diventa metafora del confine tra realtà e mondo interiore. Il lavoro con gli attori si è concentrato sull’interiorità: volevo che ogni gesto o reazione nascesse dal vissuto dei personaggi, non dal testo. Poiché molti eventi chiave restano fuori campo, era essenziale che l’attore sapesse “abitare” il personaggio, reagendo in modo istintivo, come se conoscesse tutta la sua storia. Abbiamo evitato spiegazioni superflue, lasciando parlare il non detto. Questa regia rappresenta un punto di svolta: un atto di rinascita personale e artistica affidandomi tra L’istinto personale e l’appoggio collaborativo della troupe dando al progetto la sua identità. Vorrei che lo spettatore sentisse che cambiare è possibile, anche quando sembra troppo tardi, e che il cinema, come la vita, esiste proprio in quello spazio fragile tra luce e oscurità.
Joseph Ragnedda