Note di regia di "Malavia"
Nel mio percorso artistico ho sempre reputato necessario raccontare qualcosa che avesse a che fare personalmente con il mio vissuto perché ritengo che soltanto in questo modo si possa realizzare un’opera sincera. Proprio come nel mio primo film, anche nell’ideazione e nello sviluppo di "
Malavia" ho voluto attingere dalle mie esperienze personali. In questo caso, la scelta è ricaduta sull’esplorare il complesso rapporto tra un figlio adolescente e sua madre. So bene quanto possa essere difficile questa particolare fascia d’età, soprattutto ai giorni d’oggi. Un problema che ho riscontrato in ogni fascia sociale e culturale. Indagando sempre più su questo rapporto, ho trovato il cuore della storia e mi sono resa conto che il nodo centrale per il film era soprattutto il confronto generazionale e parentale che si delinea su due estremi, da quello conflittuale a quello più ossessivo. Di conseguenza, anche il rapporto tra me e mio figlio. Così, lentamente, la storia principale ha preso forma, mettendo in primo piano la relazione tra una madre e suo figlio e i problemi che ne derivano. Il sottofondo di tutto ciò è un contesto estremamente urbano come quello della periferia napoletana, una realtà che ben conosco e nella quale ho scovato il secondo grande tema del film, ovverosia la musica rap. Napoli è una città dove la musica è vissuta in maniera viscerale, anche adesso che l’hip hop ha definitivamente soppiantato il genere neomelodico, trasformando i rapper nei nuovi idoli giovanili. Spesso, però, l’elemento che gli adolescenti percepiscono maggiormente sono la violenza nei testi delle canzoni e l’atteggiamento aggressivo di chi le propone. Inoltre, fare questo tipo di musica viene vissuto come un facile modo per arricchirsi, associandola spesso alla criminalità. Tuttavia, indagando nel fitto tessuto della musica locale, ho potuto constatare come un certo tipo di rap può essere anche fonte di difesa e riscatto, se riesce a tirare fuori l’individuo dal proprio sconforto esistenziale, spesso vissuto proprio dalle fasce adolescenziali delle comunità. Grazie al confronto con alcuni rapper che da anni fanno parte della scena underground della città partenopea, ho compreso l’importanza di alcune associazioni, nate soprattutto in realtà disagiate, che, attraverso l’utilizzo e l’insegnamento del rap derivante dai valori di emancipazione dell’old school, cercano di aiutare ragazzini dando voce alle loro parole per non farli sentire soli in un mondo che gli appare sempre più cattivo e insensibile. Ciò che ne deriva è in linea con il messaggio che vorrei veicolare con questa storia, ovverosia, mostrare come un approccio più genuino alla musica, in particolare il rap, che non debba essere visto soltanto come una esasperazione di contesti delinquenziali, ma un modo per esprimere se stessi senza la ricerca ossessiva della componente materiale. Per renderlo quanto più credibile possibile, ho voluto sviluppare il racconto attraverso il punto di vista di un adolescente, entrare nella sua psicologia e vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Solo così, infatti, si riesce a toccare le corde emotive anche di adolescenti che, mai come adesso, appaiono smarriti e abbagliati da stimoli e messaggi puramente
consumistici.
Nunzia De Stefano