Note di regia di "Andando Dove Non So.
Mauro Pagani, una Vita da Fuggiasco"
Conosco il musicista Mauro Pagani da tutta la vita. Nella prima infanzia, in una cascina della Bassa Padana appoggiata nel nulla di una distesa di campi, mia madre suonava il 45 giri di Impressioni di settembre e sulle note di quella musica ipnotica il mio sguardo fuori dalla finestra vedeva la bruma del primo mattino appoggiata sulla terra, un’immagine straniante e indelebile.
L’incontro personale accade per lavoro molti anni più in là, a Milano, dove fare musica e cinema non può prescindere dalla conoscenza del Maestro e di quel luogo sui Navigli che ha creato, le Officine Meccaniche, crocevia di talenti.
Ma la frequentazione che trascende un personaggio tanto prolifico quanto riservato, si fa più intima nel 2020, forse anche perché la vita mette entrambi alla prova nello stesso periodo. È in quel solco che leggo la bozza della sua autobiografia, Nove vite e dieci blues, e resto impressionata dalla mole della sua carriera, che pure mi sembrava già di conoscere bene.
Con il mio socio Lionello Cerri - da produttori - ci confrontiamo subito: come non farne un film? E ne parliamo con Mauro e Silvia Posa, che con Pagani da decenni condivide vita e lavoro. Seppur incuriositi e aperti a ragionare di tutto, non sono interessati a una mera trasposizione cinematografica di cose fatte, e Mauro, nella sua coerenza, non smania per stare davanti a una macchina da presa.
Lo capisco. Anche perché quello che più mi ha affascinato del suo libro, è ciò che non è stampato con l’inchiostro. E mi è chiaro il punto esatto della sua esistenza in cui siamo. Conta il senso che estrai dalle esperienze di vita, quello che ti ha lasciato il successo e il dolore, e lo sguardo con cui guardi nascere ogni giorno nuovo.
Lo capisco, e dunque non voglio convincerlo del contrario. Ma intanto l’idea del film non se ne va, e i discorsi tra noi si fanno sempre più fitti e intimi. Che sia a cena a Milano, che sia guardando il mare che si congiunge all’orizzonte, o nella comune terra d’origine.
Più lo conosco, più sento l’urgenza della sua testimonianza, così personale e densa di valori, la sento mia e al tempo stesso memoria universale: lucida sull’oggi e piena di futuro.
Scrivo appunti e immagini prendono forma, con la libertà di chi sa che non hanno scopo. E i discorsi sulla vita vanno avanti, insieme a Silvia e Lionello, insieme ad altre esperienze professionali.
Fino a che Mauro dice: “Facciamo il film se lo fai tu”.
Eh, adesso sono io che mi devo convincere.
Improvvisamente tutto mi sembra enorme, la fiducia e la responsabilità, la mole della materia
inevitabilmente non esaustiva, e perfino le cose che ho nella testa e nel cuore, così chiare e tuttavia da mettere alla prova del cinema del reale, perché c’è quello che conosco e tutto quello che scoprirò solo facendolo, anche di me stessa.
Ma sono posseduta da questo racconto, che non è solo un documentario sulla musica né un documentario di osservazione. So che sarà un viaggio insieme a un uomo in perenne movimento verso un magico ignoto.
Andando dove non so. Dove si può ancora scoprire e imparare.
Contando sul leggendario fiuto del Maestro, accetto l’azzardo.
Il mio punto di partenza è stata la destrutturazione cronologica, rompere la linea temporale che sapevo essere una prigione anche per Pagani. Il significato del passato muta per ciascuno di noi, si aggiorna con le nuove esperienze di vita, a volte mischiando il reale con l’immaginario. E definendo chi siamo oggi.
Ho cercato di rappresentare la ricostruzione della traiettoria artistica e personale come una proiezione di frammenti dei suoi ricordi salienti, ricucita dalla visione attuale, densa di sentimento, molto franca e spesso divertente. Le Officine Meccaniche sono una capsula del tempo dove Pagani intesse un dialogo anche con il suo doppio, il Fuggiasco, l’anima ribelle ispiratrice di scelte non convenzionali. La macchina da presa è in stretta relazione con Pagani, e anche con gli ambienti - scenario della creazione di capolavori che sono nella storia della musica - così come con gli strumenti e le strumentazioni, elementi vivi.
Con Sabina Bologna, direttrice della fotografia, abbiamo cercato l’autenticità di quella magia e di quella visione a volte onirica che Pagani incarna.
La contemporaneità si inserisce nel film senza soluzione di continuità, squarci sul presente tra momenti di lavoro e di vita privata, con la forma del reale.
Il materiale di repertorio - nel rispetto del suo valore documentale - si accompagna talvolta a immagini dell’oggi, in un dialogo continuo di rimandi e anticipazioni, con l’intento di farne sentire la potenza vitale.
Con decine e decine di ore di girato, una massa enorme di materiale d’archivio e ricchezza di
testimonianze, come è tipico del documentario, sapevo che tutto sarebbe stato messo alla prova in montaggio. Voglio e devo condividere l’esito con Matteo Mossi, che ha accettato di avventurarsi in questa forma del film che all’inizio era meramente teorica, e non ha mai dubitato anche quando ero abitata da mille dubbi, e che come me ha sempre cercato di farsi guidare dall’anima di Mauro Pagani.
Grazie ai protagonisti di questo racconto.
A Silvia Posa, cardine di un punto di vista inevitabilmente unico, schietto e profondo. E per l’intimità.
A Manuel Agnelli, Giuliano Sangiorgi, Mahmood, Luciano Ligabue, Marco Mengoni, Arisa, Dori Ghezzi, Badara Seck, Ornella Vanoni: grazie per la generosità.
Grazie a Lionello Cerri e a tutta Lumière & Co.
Grazie a Mauro Pagani.
Di avermi scelta per questo suo viaggio straordinario.
Ma soprattutto per aver sempre sorriso quando mi chiedeva:
“Ma come sarà il film?” e io gli rispondevo: “Non lo so”
Cristiana Mainardi