VENEZIA 82 - Tekla Taidelli: “Scelgo la vita”
Dopo vent’anni da “Fuori Vena”,
Tekla Taidelli torna dietro la macchina da presa con il suo secondo lungometraggio, “
6:06”, presentato alle Notti Veneziane, sezione realizzata dalle Giornate degli Autori in accordo con Isola Edipo.
Il film è sceneggiato dalla stessa regista in collaborazione con Edoardo Moghetti. Prodotto da Argo Film, Traky Film e Filmesdamente, produzioni associate Film Algarve e Film Aim e distribuito da LSPG Popcorn, “6:06” racconta la storia di Leo (Davide Valle), vent’anni e una vita in bianco e nero. Ogni mattina si sveglia esattamente alle 6:06. La sua esistenza è scandita da lavori precari e da una corsa senza tregua verso la prossima dose. La droga non è solo una dipendenza fisica, ma un meccanismo mentale che lo tiene intrappolato in un loop, un eterno déjà-vu da cui sembra impossibile uscire. Ogni tentativo di cambiare rotta, ogni fuga, lo riporta sempre al punto di partenza. Ne abbiamo parlato con la regista.
Questo è il film della tua rinascita…
Sì. È stato molto difficile da portare avanti, ma in qualche modo rappresenta davvero la mia rinascita.
Dopo “Fuori Vena” del 2004, che fu accostato ad “Amore Tossico” di Caligari, hai vissuto una fase di disillusione. Cosa ti aveva allontanato dal cinema?
“Fuori Vena” è stato un massacro come produzione. Claudio Caligari venne di persona a stringermi la mano e mi disse: “Benvenuta nella lista dei registi maledetti”. Fare cinema indipendente è durissimo e per anni non ho più voluto fare un film. Ho iniziato a insegnare cinema in strada, creando piccole crew, realizzando corti, spettacoli, progetti con ragazzi e immigrati. La mia vita era diventata quella: trasmettere il cinema invece che produrlo.
E poi cos’è successo?
Un mio allievo mi ha spinta a partecipare a un bando. Io non volevo più fare cinema, ma all’ultimo minuto mi è arrivato un soggetto: “6:06”. Era la storia in bianco e nero di Leonardo, intrappolato in un loop di droga. Da lì è scattato qualcosa: l’idea del loop mi sembrava perfetta per raccontare quel mondo.
Ma il progetto è cambiato strada facendo…
Sì. In Portogallo alcuni amici artisti mi hanno detto: “Tu sai vivere a colori, perché non racconti anche questo?”. Così è nata la parte a colori, che rappresenta la mia rinascita. Ho avuto un passato hardcore, fatto di cadute e risalite. Sono figlia di un suicida: la parte sul suicidio nel film è volutamente ispirata a mio padre. Volevo dire che la vita a colori è possibile.
Come hai scelto il cast?
Per me gli attori sono sempre persone di strada, interpreti di sé stessi. Ho diretto homeless, ragazzi di borgata. Qui, per la prima volta, mi sono trovata davanti a un’attrice. Volevo una ventenne straniera che portasse luce, un’anima diversa. Dopo diversi provini è arrivata George Li Tourniaire: ha fatto un provino potentissimo, e ho sentito che era lei. È diventata la parte salvifica della storia, mentre Davide rappresenta il mio lato oscuro. In fondo, sono due parti di me.
C’è una scena molto forte, quando lei dice: “Io ti ho scelto, perché tu sei scappato dalla morte”. Quanta vita vera c’è lì dentro?
Tantissima. Quella scena nasce da episodi che ho vissuto: mi sono lanciata in autostrada, ho toccato la morte tante volte. Ma alla fine ho scelto di vivere, con tutte le cicatrici. E voglio che questo messaggio arrivi chiaro: si può scegliere la vita.
Quindi “6:06” è anche un manifesto?
Esatto. È un manifesto del cinema indipendente, dimostrare che con pochi mezzi ma tanta passione puoi fare un film vero, e un manifesto per i giovani. Oggi i ventenni spesso sono disillusi, senza ideali. Io invece credo che tutti abbiano diritto a una seconda chance, a ritrovare senso.
Mettersi così a nudo è faticoso?
Molto. Ma se hai accanto persone che sostengono la tua scelta, è anche gratificante. Come dice Philip K. Dick: “Verrà il giorno in cui farai risplendere le tue cicatrici al sole”.
06/09/2025, 14:00
Caterina Sabato