VENEZIA 82 - Giovanni De Maria, dal CSC al set:
“Non vedo l’ora di mettermi in gioco”
Tra i protagonisti del corto “
Marina” di Paoli De Luca, in concorso alla Settimana della Critica nell’ambito di Venezia 82, il giovane attore
Giovanni De Maria, figlio d’arte, si racconta tra sogni e speranze. Allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia si è già distinto, nelle “prove aperte” degli allievi di Recitazione, in ruoli complessi e controversi: da Laerte e Polonio in “Amleto. Un principe, mille volti da Shakespeare”, a testi teatrali di autori contemporanei (ad esempio il drammaturgo Mark O’Rowe) a partecipazioni di impatto in cortometraggi di interesse internazionale come “Phantom” di Gabriele Manzoni.
Come è nata la tua passione per la recitazione?
“Ho deciso verso la fine del liceo, più o meno in quarta. In quel periodo i licei iniziano a portarti agli open day delle università io guardavo intorno, ma non mi convinceva nulla. Economia, giurisprudenza… non era per me. Un giorno sono andato a trovare mio padre, Renato De Maria, su un set a Foggia, non lo vedevo da un po’. Mi mise in una scena come comparsa, in un corridoio di un carcere minorile. Sono stato lì due giorni, e tornando a Roma in treno ho pensato: “Sai che sono stato davvero bene?”. Quelle giornate mi hanno parlato”.
Ti sei sentito influenzato dai tuoi genitori, considerando l’ambiente familiare?
“No, mai. È chiaro che ho assorbito tanto. Ma loro non mi hanno mai chiesto, detto o suggerito nulla. È venuto tutto in modo spontaneo, com’è giusto che sia. Se fosse stato imposto probabilmente ci sarei andato contro”.
Adesso studi al Centro Sperimentale di Cinematografia…
“Sì, sono alla fine del percorso. È stata un’esperienza molto bella e molto cercata. Non sono entrato subito: ci ho messo tre anni, provando in tutte le grandi scuole italiane e venendo sempre bocciato alla prima fase. Poi ho fatto un’esperienza fuori e, tornato a Roma, ho riprovato al CSC, anche grazie al suggerimento di mio padre. All’inizio ero rimasto male per le porte chiuse, ma lui ha spinto sulla formazione e aveva ragione: è stata fondamentale”.
Sei protagonista del corto di Paoli De Luca “Marina”, interpreti Lorenzo, un ragazzo che non riesce a vivere con serenità i suoi sentimenti verso la protagonista, una ragazza in fase di transizione…
“Il modo in cui è cresciuto Lorenzo gli ha costruito attorno una struttura di sicurezza. Lui dentro questa struttura si sente protetto, ma l’attrazione e il sentimento che prova lo portano fuori da quei confini. Appena esce, però, ha bisogno di tornarci dentro. E lì si vede che non si prende la responsabilità: rimane nella sua zona protetta, mentre Marina resta da sola dopo quel bacio. Lorenzo invece rimane represso”.
Infatti lui sembra schiacciato dal “dover fare” quello che dicono gli altri…
“Sì, esatto. È proprio così. Lorenzo è dentro le linee solcate, mentre Marina è fuori. Lui è schiacciato da questo dover seguire gli schemi che ti impone l’adolescenza, quando fai le cose solo perché lo dicono gli altri. Chi fa scelte diverse viene messo ai margini. È un tema che sento molto anche nella società di oggi: con i social c’è una sovraesposizione continua, è come avere sempre un occhio puntato addosso”.
E tu, da giovane attore, come vivi l’esposizione sui social?
“I social hanno amplificato tantissimo il concetto del “perdente”. Perché lì c’è sempre qualcuno che sta facendo, che sta lavorando, che mostra qualcosa. Dal telefonino sei attaccabile in qualsiasi momento. È una cultura del vincente e del perdente che fa malissimo all’anima. Prima, nel Novecento, c’era la nevrosi; oggi la depressione è molto più presente, soprattutto nella nostra generazione. Perché c’è un continuo paragone con gli altri, e il falso mito che puoi fare tutto. Se non lo fai, sembra che sia colpa tua. Questo dispositivo che abbiamo in mano ce lo mostra continuamente, e così molte persone implodono”.
Com’è stato lavorare con Paoli De Luca?
“È stata un’esperienza bellissima perché abbiamo fatto tante prove. E provare è fondamentale: ti permette di sbagliare. Se fai un paragone con un pittore, lui a casa butta via decine di tele prima di arrivare a un quadro buono. Noi invece sbagliamo davanti a qualcuno. Per questo è importante avere un ambiente sano come quello che crea Paoli: mi sono trovato benissimo, sia artisticamente che umanamente. Siamo amici, ci frequentiamo anche adesso. Lei è molto onesta, non ti zucchera le cose e ascolta sempre. Anche quando non è d’accordo, ti ascolta. E poi l’estetica che porta sul set mi piace davvero tanto”.
Hai dei modelli o interpreti che ti ispirano particolarmente?
“Mio padre mi ha cresciuto con i gangster movie. Quando ero abbastanza grande mi ha fatto vedere i film di De Niro, che mi hanno folgorato. Poi ovviamente Al Pacino. In Italia guardo con grande ammirazione a Luca Marinelli, Pierfrancesco Favino ed Elio Germano. Germano è anche venuto al Centro a farci una settimana di lezione: brillante, un artista vero. Ammiro molto le loro carriere, fatte di scelte mai banali”.
Durante gli anni di studio hai potuto fare altre esperienze sul set?
“Per i primi due anni e mezzo non puoi lavorare, non perché la scuola voglia opporsi, ma per una regola legata alle assenze. Però ho fatto vari corti. Il mio primo set consapevole è stato con Stefano Mordini per “La scuola cattolica”. Poi una scena nell’ultimo film di mio padre, “Svaniti nella notte”, uscito su Netflix. Esperienze brevi, ma preziose”.
Ora che stai per concludere la scuola, come ti senti?
“Non vedo l’ora di cominciare davvero, di mettermi in gioco e far vedere quello che so fare”.
04/09/2025, 08:25
Caterina Sabato