LOCARNO 78 - Intervista ai registi di "Nella Colonia Penale"
La prima cosa che si nota è il numero di "firme" alla regia del doc: come avete lavorato insieme? Avete tutti un "passato" da autori/autrice singoli, quale processo vi ha portato insieme dietro la macchina da presa?
Alberto Diana: Ho un percorso da autore singolo, ma ho collaborato in passato a progetti collettivi con
L’Ambulante di Gaetano Crivaro e Margherita Pisano (Rondò Final, Remix remix). Con Silvia e Ferruccio ho partecipato durante la residenza artistica di Indygena, nel corso della quale ho realizzato il cortometraggio Pneuma. Nel caso de “Nella colonia penale” è stata la produzione di Mommotty a coinvolgerci tutti e quattro insieme nel 2020 per chiederci di prendere in mano il progetto.
Gaetano Crivaro: Fin dai primi miei film e poi con il laboratorio che ho fondato nel 2014 (L’Ambulante), ho sempre lavorato a progetti collettivi o collettivizzanti. Lavorare collettivamente è un processo che arricchisce ma è un processo difficile in quanto bisogna essere pronti a mettersi in discussione, a fare delle rinunce, mediare, modificare la propria idea di partenza, per avere in cambio qualcosa di imprevedibile.
Per fare un solo esempio di questo approccio posso citare Rondò final (Visions du Reel - Festival dei Popoli 2021), una regia a tre (insieme a M. Pisano e F. D’Agostino) realizzato attraverso un percorso che abbiamo definito Assemblea di Montaggio e Staffetta di Montaggio e che ha coinvolto 8 persone come montatori. Per me il cinema è un atto di creazione collettiva e l’autore, quando singolo, è solo colui che prende in mano l’opera e che se ne assume la responsabilità.
Eccoci quindi al punto. In questi processi ho sempre scelto con chi lavorare, ci siamo sempre scelti per volontà e percorsi comuni.
Nella colonia penale è per me la prima volta in cui è stata la produzione a scegliere con chi dovevo lavorare. Un film in cui ogni autore doveva realizzare il suo di episodio (struttura che in qualche modo è rimasta invariata). La collettivizzazione del processo in questo film è stato un qualcosa di inaspettato che è venuto in corso d’opera, dove noi autori, pur senza aver mai lavorato insieme - in questa formazione -, siamo riusciti a raggiungere una sintonia che ha rafforzato il film come atto, se vogliamo anche politico. Se avessimo lavorato da soli, ognuno chiuso nel suo episodio, senza contaminazioni, sono sicuro che
Nella colonia penale sarebbe una cosa completamente diversa.
Silvia Perra: Come autrice, diplomata in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, ho sempre ideato e diretto personalmente i miei lavori, preferendo però scrivere a quattro mani con una sceneggiatrice di fiducia. Il lavoro collettivo, dunque, ha sempre fatto parte del mio percorso. Quando la casa di produzione Mommotty, con cui avevo già collaborato negli anni, mi ha proposto la scrittura e la regia di un episodio del documentario
Nella colonia penale, ho accettato subito: per me rappresentava una sfida creativa e stimolante allo stesso tempo. Inoltre, conoscevo già gran parte della squadra grazie alla residenza artistica Indygena, dove avevo realizzato il corto documentario
Il rito.
Ferruccio Goia: In passato ho già lavorato in collaborazione con altri autori, specialmente in duo. I progetti che hanno ottenuto più risonanza sono stati documentari co-firmati da due persone (Domenica dei fiori; My Private Zoo). Questa modalità mi ha permesso di lavorare in modo più indipendente, soprattutto quando le risorse economiche erano limitate. Dividere il carico artistico/tecnico e produttivo tra due persone ha facilitato il processo, donando una certa libertà creativa con meno vincoli economici.
Per questo progetto, sono stato contattato da Nicola Contini, uno dei produttori, che voleva sviluppare la sua idea di realizzare un documentario sulle colonie penali in Sardegna, coinvolgendo più registi. Avevamo già collaborato in passato, quindi ci conoscevamo, anche se mai a stretto contatto come in questo caso.
Conoscevo già due dei registi, Alberto e Silvia, mentre Gaetano l’ho conosciuto con questo lavoro. Il processo collettivo è iniziato nel 2020 e, vivendo tutti in luoghi lontani, abbiamo sviluppato l'idea a distanza, incontrandoci online mensilmente o settimanalmente a seconda delle necessità. Per molto tempo abbiamo discusso sulle nostre idee più personali e riflettuto su come queste potevano confluire in questo progetto. Ognuno di noi registi ha sviluppato individualmente una sceneggiatura relativa alla propria colonia assegnata, basandosi su documentazione esistente e molta fantasia perché nessuno di noi ci aveva mai messo piede. La fase di scrittura ha evidenziato i nostri diversi approcci e idee di cinema. Personalmente, mi sono concentrato sull’idea del ritratto: ho pensato di raccontare quel mondo dal di dentro attraverso i ritratti di chi viveva quotidianamente quella detenzione, e così ho fatto anche durante le riprese, riportando storie di vita nella sua forma più essenziale, ponendomi il problema ma senza risolverlo e senza giudicare.
Un tema complesso, mostrato da diverse angolazioni, senza aggiunta di parole di commento: quali le maggiori difficoltà e quale il risultato che vi soddisfa di più in tal senso?
AD: Inizialmente il problema più importante è stato quello dell’accessibilità: in fase di scrittura abbiamo lavorato senza poter visitare i luoghi in cui avremmo dovuto girare, per questioni di permessi e limitazioni legati alla pandemia. Successivamente, in fase di ripresa, ognuno di noi ha dovuto fare i conti con la realtà e le regole di ciascun luogo.
Ho lavorato alla realizzazione dell’episodio dell’Asinara, girato a più riprese nel corso di un anno tra il 2021 e il 2022. Raccontare un’isola come l’Asinara può essere estremamente complicato, poiché è un luogo di grande fascino e che racchiude in un certo senso la storia d’Italia del Novecento. Sono dovuto andare in profondità per arrivare a comprendere l’essenza del luogo e cogliere quello che era il conflitto latente che attraversa non solo l’Asinara, ma anche le altre colonie: il rapporto tra essere umano e animale, il replicarsi dei metodi di sorveglianza, controllo e repressione, anche in un luogo in cui l’istituto carcerario non esiste più da quasi trent’anni. Da questo punto di vista è stato essenziale il confronto con gli altri registi, soprattutto in fase di montaggio. Inoltre, l’idea di lavorare nei quattro episodi con la stessa direttrice della fotografia (Federica Ortu) e ricorrere perlopiù all’utilizzo della camera sul cavalletto e ad un’idea precisa di inquadratura ci ha permesso di mantenere una coerenza stilistica e di linguaggio nel corso di tutto il film.
GC : Per quanto riguarda me, che ho girato a Isili (l’episodio che apre il film) la principale difficoltà è stata nel relazionarmi con un sistema gerarchico a cui non sono abituato. Questa cosa è anche stata uno stimolo perché ti costringe a pensare lateralmente. Come posso filmare cose che non posso filmare? Come filmo la gerarchia se questa non si manifesta mai così esplicitamente di fronte alla camera? In fondo è ciò che fa il cinema: prova a filmare l’invisibile. Anche qui così entra in gioco l’aspetto collettivo. Il mio episodio apre il film e in qualche modo è anche una responsabilità: come si fa a fare un pezzo di film che non si chiuda in sé stesso ma che apra all’episodio successivo? Ecco quindi che torna il concetto di Staffetta. In fondo da episodio in episodio ci siamo passati di mano in mano un testimone, perché giocando nella stessa squadra stavamo lavorando allo stesso film.
SP: Io ho diretto il secondo episodio nella colonia penale di Mamone. La prima sfida per me è stata la scrittura, fase a cui dedico sempre molto tempo e attenzione con ricerche e sopralluoghi. In questo caso, senza sopralluoghi, mi sono affidata alle testimonianze a distanza di educatrici e agenti, accettando un compromesso. La seconda sfida è stata la riscrittura: una volta avuto accesso alla colonia, mi sono trovata davanti a situazioni e personaggi così originali da spingermi a rielaborare il soggetto durante le riprese. In quella comunità dalle regole precise dovevo anch’io adattarmi per guadagnare la fiducia di detenuti e agenti. Da subito mi sono avvicinata a loro in punta di piedi e senza giudizio: un passaggio necessario, ben prima di posizionare la macchina da presa. L’ultimo giorno di riprese, mentre stavamo per andare via, ho avuto la fortuna di scoprire che di lì a poco un detenuto sarebbe stato liberato. Mi hanno dato subito il loro benestare, permettendomi di riprendere un momento così intimo come la liberazione come se fossi parte della comunità. Senza quel rapporto di fiducia costruito insieme ai detenuti, quella scena oggi non esisterebbe. Infine, lavorare a distanza con i co-registi e il montatore ha richiesto lunghe sessioni online di confronto. Pur mantenendo la specificità dei singoli episodi, abbiamo avuto il desiderio e la capacità di farli dialogare tra loro in un processo collettivo che ha dato al progetto un nuovo slancio creativo, determinante per la riuscita del film.
FG: Ero entusiasta all'idea di esplorare un tema poco conosciuto come le colonie penali, di cui si parla poco e di cui molti ignorano l'esistenza. Per quanto riguarda il mio episodio Is Arenas, la difficoltà maggiore (ma anche stimolo) sono state le estreme limitazioni di cosa si poteva e cosa non si poteva filmare, imposte dal comando della struttura. Il tutto in un tempo brevissimo, appena due settimane per riscrivere il progetto ora dopo ora, ad ogni cambio di permessi, convogliare sopralluoghi e incontri, e decidere cosa fare. Dopo il primo e unico ciak su cavalletto (che è l’ultima inquadratura nel mio episodio), ho deciso insieme al direttore della fotografia Federica Ortu che avremmo girato soltanto con camera a spalla perché quello sarebbe stato l’unico modo a parer mio di muoverci agevolmente tra le imposizioni del sorvegliante, adattando il racconto scritto alle verità che emergevano, perché come documentaristi siamo sempre predisposti ai cambi di programma che possano arricchire la nostra ricerca visiva.
Per me era chiara fin dall’inizio la nostra intenzione di evitare l’uso della voce narrante: ho sempre avuto la sensazione che questa fosse una regola non dichiarata, ma parte integrante di questo progetto. Come unico elemento didascalico, a parte il cartello esplicativo finale, è l’utilizzo dei nomi delle quattro colonie all’apertura di ogni episodio. E questo è il risultato che mi soddisfa maggiormente: seppur abbiamo diviso le colonie in episodi lo spettatore percepisce il film come un unico film, senza frammentazioni, in un unico flusso di immagini e suoni tra una colonia e un’altra, dall’inizio alla fine. Ogni colonia respira in simbiosi con le altre. C’è coerenza narrativa e di contenuti seppur gli stili e gli approcci siano diversi tra loro. E questo lo trovo molto bello.
Da Bellaria a Locarno, il doc sta frequentando festival importanti e un pubblico attento: quale il vostro giudizio finora sul percorso fatto? Qualche aneddoto/considerazione a riguardo?
AD: E’ stato molto bello iniziare il percorso a Bellaria perché è stato lì che il film ha avuto un primo riconoscimento, grazie al premio ricevuto nell’industry di In Emergenza per la post produzione video a Cinecittà nel 2023. Successivamente, oltre ai festival, abbiamo presentato il film in alcune delle colonie in cui abbiamo girato: questo fa parte di un percorso di restituzione che è necessario per via del lavoro che è stato fatto. Ci auguriamo di poter portare il film anche per un tour di proiezioni nelle carceri, visto che la realtà delle colonie è molto diversa rispetto a quella vissuta quotidianamente dalla maggioranza dei detenuti in tutta Italia.
GC : Mi pare che il film stia facendo, grazie anche ad un pizzico di fortuna, un percorso naturale, incontrando interesse nei contesti giusti. Il festival di Bellaria prima (passando per Cinemambiente e Ischia) e di Locarno poi, mi auguro che aiutino a dare una spinta ad un film che è comunque un film indipendente e a basso budget e che per via di economie ridotte deve affidarsi anche alla fortuna di essere nel posto giusto e nel momento giusto. Una volta esaurito il percorso festivaliero spero che il film possa incontrare il suo pubblico in sala ma anche in contesti diversi da quelli classicamente dedicati al cinema, anche per via del tema che affronta. Durante una proiezione ad Isili, un detenuto si è avvicinato e ci ha ringraziati, perché per un’ora e mezzo lo abbiamo fatto “evadere”. Per me questa semplice cosa vale tutti gli sforzi che abbiamo messo nel film in questi 5 anni.
SP : Il film sta avendo un percorso festivaliero importante. Ho sempre ritenuto l’anteprima al Festival di Bellaria la collocazione ideale in Italia per un film di questo tipo, anche perché è proprio a Bellaria che ci hanno dato fiducia con il premio alla post-produzione. Mi auguro che dopo Locarno, il film possa continuare il suo percorso in altri festival europei e in sala. Come parte di un percorso di restituzione al territorio, lo proietteremo presto anche nella colonia penale di Mamone, non vedo l’ora di scoprire come verrà accolto il film dai detenuti.
FG: Sono convinto delle nostre scelte prese in tutti questi anni, dalla scrittura al montaggio. Non tornerei indietro per cambiare le cose. Tuttavia, fino a poco tempo fa persisteva il dubbio che il nostro entusiasmo fosse solo legato al nostro innamoramento per il progetto. Quando è arrivata la selezione del Bellaria Film Festival il senso di solitudine è diminuito e abbiamo acquisito maggior sicurezza. Abbiamo anche mostrato il film nelle stesse colonie penali, permettendo ai protagonisti di vederlo e di restituire loro ciò che ci avevano donato. È stato molto emozionante sentire i loro commenti a caldo dopo la proiezione o durante il film, il loro vociare che si faceva a volte più rumoroso quando si riconoscevano nello schermo o riconoscevano una persona o un luogo. Adesso stiamo preparando le valigie per la Semaine de la Critique di Locarno, cosa che ci ha sorpreso notevolmente e ci auguriamo che il film continui il suo già fortunato percorso festivaliero e contemporaneamente trovi una distribuzione adeguata.
Nuovi progetti? Ancora insieme o separati?
AD: Al momento sto lavorando al mio primo lungometraggio di finzione, Intra Montes, in fase di sviluppo, ma ho altri progetti in fase di scrittura. Non escludo di lavorare a nuovi progetti in co-regia o collettivi, anche se credo che un film come “Nella colonia penale” rimarrà un unicum sia dal punto di vista produttivo che per il metodo di lavoro che abbiamo sperimentato.
GC : Ogni film ha una sua storia e Nella Colonia Penale è un oggetto difficile da replicare sia da un punto di vista produttivo che autoriale. Sono impegnato al momento in due film che si trovano in due stadi diversi. Sto terminando la post produzione di un film a cui ho lavorato in parallelo a Nella Colonia Penale, COSA RIMANE QUANDO IL MARE SI MUOVE (questa volta regia singola). SELVAGGIA OSSESSIONE invece è un film in sviluppo avanzato in co-regia con Margherita Pisano co-prodotto da Mommotty e Ruga Film, finalista Premio Solinas 2023 e con il quale abbiamo partecipato a Past Forward durante gli Industry Days di Biografilm. Spero che il film veda la luce entro il 2028.
SP : Attualmente sto sviluppando due progetti di documentario, anche se sono ancora in fase iniziale. Per quanto riguarda eventuali altri lavori collettivi, non escludo nulla, per me ciò che conta è sempre la qualità di un progetto e le relazioni umane, ma ritengo che un film come Nella colonia penale sia complesso da riprodurre, sia dal punto di vista autoriale che produttivo.
FG: Negli anni, parallelamente a questo film, ho sviluppato altri progetti documentari su cui mi ci sto rimettendo proprio ora. Spero di uscire con due nuovi film nel 2026 e uno nel 2028. Nel frattempo proseguo la realizzazione di documentari etnografici per l’università di Bergen. La collaborazione con Gaetano, Silvia e Alberto è stata molto importante, e credo che potremmo realizzare ulteriori lavori insieme anche se per ora ognuno tornerà ai propri progetti individuali.
05/08/2025, 08:30
Carlo Griseri