CINEMAMBIENTE 28 - In selezione "Abele" di Fabian Volti
Dal Mediterraneo al Medio Oriente pastori solitari dell’entroterra sardo e comunità itineranti di beduini vivono seguendo il corso degli astri e delle stagioni, silenziosi testimoni di quotidianità in conflitto. Le loro storie si intrecciano in un racconto corale che unisce osservazione e creazione nel documentario
Abele (2025, Italia, 77’) del regista sassarese Fabian Volti, che sarà presentato lunedì 9 giugno al
Festival Cinemambiente di Torino.
Perché il pastore resiste in un mondo che gli è ostile? Tra la Sardegna e la Palestina, due luoghi geograficamente distanti ma ugualmente centrali nella storia del pastoralismo errante, Abele incontra le vite di uomini pastori resilienti che sopravvivono ai confini di un poligono militare, in una chiesa sconsacrata alle porte di una città, tra gli ovili del Supramonte e nel deserto palestinese controllato dall’esercito israeliano.
Dopo l’anteprima a IsReal, Festival di Cinema del Reale di Nuoro, il film sarà appunto presentato lunedì 9 giugno alle 21 al Cinema Massimo di Torino, nell’ambito della 28° edizione del Festival Cinemambiente, la più importante manifestazione italiana dedicata ai film a tematica ambientale, organizzata dal Museo Nazionale del Cinema.
Il film è prodotto da Roda Film in collaborazione con Caucaso, con il sostegno di Regione Autonoma della Sardegna, Fondazione Sardegna Film Commission, Fondazione di Sardegna e Ministero della Cultura.
Girato in digitale e in 16 mm, con una voce fuori campo in arabo e in sardo (quest’ultima, del poeta Alberto Masala) che, a tratti si sostituisce ai dialoghi, Abele racconta quattro storie emblematiche del mondo agropastorale, alternando riprese del reale e rari filmati d'epoca, provenienti dal fondo Fiorenzo Serra e dagli archivi visivi e sonori delle agenzie AP e British Pathé. Tre storie – e tre ritratti – sono ambientati in Sardegna, frutto di anni di ricerche e interviste sul campo. «Come documentarista, e prima di tutto come essere umano nato in Sardegna, ho sempre avuto un forte interesse per i contesti rurali dell’isola» spiega Fabian Volti. «Volevo indagare cosa restasse del pastoralismo come forma atavica di sussistenza che, come sappiamo, da anni attraversa una forte trasformazione in cui il pastore ha perso il suo ruolo di punto di riferimento per le comunità, ricoperto fino a qualche decennio fa. Mi interessava osservare come quel mondo si rapportasse con i cambiamenti e le contraddizioni della società attuale».
Così, sospeso tra un passato quasi completamente scomparso e un presente che gli è estraneo, a Porto Tramatzu il capraro Severino pascola i suoi animali vicino al poligono militare di Capo Teulada; sul Supramonte, Billia, custodisce il suo kuile nel territorio di Dorgali; infine, a pochi chilometri da Sassari, Mario vive con il suo gregge all’ombra di una chiesa campestre del ‘500 e ricorda la sua infanzia come servo pastore e la giovinezza nell’esercito, quando per la prima volta scopre il mondo fuori dall’isola.
La quarta storia raccontata nel film è quella di una famiglia di pastori beduini che abitano il Deserto di Giuda, nelle aree C. Dagli accordi di Oslo del 1995, il territorio è sotto la giurisdizione israeliana, che a più riprese tenta di mandare via le tribù, per fare posto a nuovi insediamenti di coloni e basi militari. Insieme a una piccola troupe, Fabian Volti ha incontrato la famiglia di Mahmood durante un viaggio in Cisgiordania nel 2022, organizzato con il supporto dell'associazione Ponti Non Muri. «La Palestina, come la Sardegna, è una delle terre in cui nasce il pastoralismo. Quando ho iniziato a lavorare al film, mi è sembrato quindi urgente e necessario visitarla» afferma il regista. «E volevo raccontare un conflitto tra un mondo di uomini resistenti e pacifici e la distruzione e la morte provocata dalle guerre».
Nel corso delle riprese sono state realizzate interviste ad alcuni capovillaggi tra Gerico e Betlemme, e, grazie a loro, Abele contiene anche un messaggio indirizzato dalle comunità beduine alla comunità internazionale. «Quando ci accompagnavano a filmare nel deserto erano spesso terrorizzati da possibili rappresaglie dell’esercito israeliano, però volevano che la loro storia fosse conosciuta nel resto del mondo» continua il regista. Il film è anche un punto di arrivo nella ricerca autoriale sui linguaggi del cinema documentario, attraverso l'uso creativo delle pellicole analogiche e degli archivi, i lunghi tempi dell’immersione partecipante e dell’ascolto dei luoghi e delle persone.
05/06/2025, 07:17