Samurai è un film dalle molte facce. La prima è quella presa in prestito dal cinema noir (il titolo viene da un classico di Jean-Pierre Melville), perché inscena degli atti criminali; la seconda è invece una variazione molto personale di un melodramma, ponendo in contrasto due modi diversi di intendere la passione amorosa: quello di Maia, permeato di romanticismo, e quello di Leda, rivolto soltanto alla soddisfazione del proprio piacere sensuale. Ma è la terza faccia quella più misteriosa ed inquietante. Se le due protagoniste si dimostrano essere non umane, bensì angeli “sterminatori”, emissari di un Dio lontano e crudele, la terza faccia di Samurai è quella della maschera bianca che esse fanno indossare alle loro vittime dopo averle freddate, allegoria di un creatore che di umano ha ben poco. La citazione da le Elegie Duinesi di Rilke vuole essere il viatico per entrare nel vivo del racconto, che condensa la riflessione gnostica sul mondo: se l’universo è dominato da un principio negativo, propugnatore di distruzione e morte, la salvezza viene dal libero arbitrio (quello di Maia) che decide di andare contro le regole, uccidendo Leda. Ma tutto viene scompaginato e messo in discussione, lasciando senza risposta l’interrogativo secondo il quale chi governa le nostre azioni, in fondo, potrebbe sapere già tutto. L’occhio polanskiano (da Repulsion), che apre e chiude il film in una circolarità viziosa, sottolinea ancora una volta come ogni atto sia frutto sì della nostra coscienza, ma possa essere anche controllato da qualcosa di innato ed eterno, che giace in una dimensione non reale né simbolica, ciononostante prefigurando tutto il resto.
Alessandro Romano