"Nel Tempo di Cesare" è un opera che inizia nel 1999. Il suo iter di sviluppo e produzione è stato lungo...
Angelo Loy: Oltre che lungo è stato anche complicato. Dal punto di vista delle riprese, per lungo tempo non mi è stato chiaro quando avrei potuto mettere la parola fine. Sono andato avanti a braccio, cercando di essere presente noi momenti che potevano costituire importanti snodi narrativi. Ma anche così molte situazioni interessanti mi sono sfuggite. Oltretutto la vita sul fiume scorre per mesi e a volte per anni sempre uguale a se stessa, nella ripetizione di gesti quotidiani e nel ritmo del mestiere e delle stagioni; e poi, un giorno, inaspettatamente avviene un cambiamento. Esserci presuppone una grande pazienza, che poi, per un documentarista, è un pò come la pazienza del pescatore: in questo non ero in una situazione molto diversa da quella dei miei protagonisti... Ho messo la parola fine quando ho capito che ero riuscito a cogliere le emozioni che volevo trasmettere e a restituire nella loro complessità le storie dei protagonisti.
Coinvolgere un produttore in un racconto del genere mi sembrava impossibile, avevo l'impressione che nessuno si sarebbe impegnato in un progetto così denso di incertezze. Quindi, a un certo punto, ho messo mano da solo al montaggio e ho montato una versione che almeno rendesse chiare le atmosfere, il ritmo, lo spirito e l'intento del progetto. E' stata un'esperienza frustrante: ero troppo "dentro" la storia. La mia versione del film era incomprensibile.
Allora sono ritornato alla scrittura: per partecipare al Premio Solinas sono stato costretto a sintetizzare il film sulla carta e su un numero limitato di pagine. Mia moglie, Amyel Garnaoui, è stata l'occhio esterno: ma ha aiutato a rendere chiaro il messaggio del film e a chiarire la sua struttura narrativa. E così abbiamo vinto il premio Documentario per il Cinema. Sull'onda di questo importante risultato è intervenuto - in maniera decisiva e coraggiosa - il produttore Alessandro Borrelli di La Sarraz Pictures. A quel punto l'amica e montatrice Aline Hervé, che conosceva bene tutte le insidie di questo film e sapeva che il processo di montaggio sarebbe stato lungo e complesso, ha avuto la felice intuizione di proporlo al suo assistente, Shervin Zinouzi. Per Shervin sarebbe stata la prima esperienza di montatore su un lungometraggio.
Shervin ha lavorato da solo per più di un mese e mi ha restituito un premontato che mi ha fatto capire per la prima volta che in tutta quella mole confusa di materiale effettivmente esisteva un film; Shervin mi ha restituito la profondità e le emozioni di cui nemmeno io ero più consapevole. Per me è stato un momento di epifania. Su quella base è iniziata la nostra stretta collaborazione, durata mesi. Nessuna decisione nel montaggio di questo film è stata facile, ogni scelta è stata complessa e sofferta. Un gioco di equilibrio funambolico.
Parallelamente, Alessandro Borrelli, metteva insieme i mattoncini che avrebbero determinato l'impianto finanziario del film. Rai Cinema, la Regione Piemonte, il Piemonte Doc Film Fund, ecc. Grandi e ingiustificati assenti il Comune di Roma e la Regione Lazio.
Come hai conosciuto i Rosci ed i Ciccioni? come ti hanno accolto nelle loro comunità?
Angelo Loy: Ho conosciuto le due famiglie quando, da biologo, dovevo raccogliere campioni di anguille del Tevere. Loro erano gli unici e gli ultimi pescatori professionali del tratto urbano del fiume. Controllavano le zone di pesca dall'Isola Tiberina a Fiumicino. Da decenni sopravvivevano - e in alcuni periodi si arricchivano - pescando anguille, che rivendevano agli allevamenti del Nord Italia. Quello era anche il tempo in cui cominciavo a interessarmi al cinema documentario e l'incontro con le due famiglie è stato decisivo per la mia successiva scelta professionale. Quindi, per circa sei mesi, sono andato al fiume tutti i giorni, alternando una visita ai Rosci a una ai Ciccioni. Facevo manovalanza, imparavo tante cose, ascoltavo le loro storie e intanto si creava un rapporto di fiducia. Poi ho cominciato a riprendere, dapprima da solo con una piccola videcamera, e poi ho deciso che quella situazione meritava di più e mi sono organizzato per riprendere in pellicola 16mm.
Anwar è il terminale ultimo di queste società "arcaiche"?
Angelo Loy: Anwar ha imparato il mestiere dai Ciccioni prima e da Cesare dopo. C'è una continuità, anche se lui poi si è dedicato alla pesca di altri pesci del fiume, le enormi carpe del Tevere e il gigantesco pesce siluro, straniero come Anwar nelle nostre acque. Non so se Anwar si possa considerare il terminale ultimo, la vita umana sul Tevere è in continua evoluzione. Si parla però di proibire definitivamente la pesca delle anguille e dunque tutto il patrimonio culturale legato a questa specie antichissima e misteriosa rimarrà letteratura. E cinema, speriamo.
"Nel Tempo di Cesare" non è un documentario etnologico ed in parte, non lo definirei come di "osservazione". Come lo "catalogheresti", se si può parlare di categorie?
Angelo Loy: Difficile per me catalogarlo. Qualcuno potrebbe cogliervi degli spunti antropologici, le anguille hanno una storia naturale affascinante; il film è anche una saga familiare e, per quanto mi riguarda, è un film di formazione. E' girato con un approccio che può essere considerato di osservazione, che a volte però viene smentito da una presenza decisa dell'autore. Il film infatti, mio malgrado, racconta anche di me. In sintesi però credo che la forza del film stia proprio nel fatto che, alla fine di tutto il complesso lavoro sul tempo, nelle riprese, nel montaggio, non sia più possibile rinchiuderlo in una categoria. La sfida che ci siamo posti è stata quella di non cedere al fascino etnologico o alla nostalgia di una cultura in via di estinzione, di lasciare allo spettatore l'idea di un fiume ancora pieno di vita, di cercare di rendere il film atemporale e inclassificabile.
A cosa stai lavorando...
Angelo Loy: Diciamo che vivo un periodo in cui i materiali di archivio si sono riproposti in maniera decisa nella mia vita professionale. In particolare, dopo aver girato la prima parte di "
Nel tempo di Cesare", all'inizio del 2000, ho cominciato a lavorare in Kenya, facendo documentari con e su un gruppo di ragazzi di strada di Nairobi. Anche lì ho accumulato materiale di archivio che copre più di dieci anni della loro vita. Ragazzi molto talentuosi, che a quel tempo parteciparono a progetti teatrali, anche di successo internazionale, e audiovisivi. Giovani che per un periodo hanno sognato di potersi svincolare dallo slum in cui vivevano. Questo non è avvenuto. O peggio, qualcuno ce lo siamo perso durante il tragitto. Proprio intorno a questa morte prematura di uno di loro si costruisce il racconto del passato e del presente del progetto su cui sto lavorando. Oggi, infatti, lo stesso gruppo, ormai formato di uomini adulti, sta creando, in memoria del loro amico scomparso, una cooperativa, e si sta faticosamente costruendo una strada per poter meglio sopravvivere nello slum. Anche questo è un documentario complesso, un racconto di formazione, questa volta africana. Lo sto sviluppando insieme a Nicko Kori, uno degli ex ragazzi di strada, che nel frattempo è riuscito fino ad oggi a campare facendo il filmaker a Nairobi.
Vorrei aggiungere una cosa: l'incontro con i Rosci, con i Ciccioni e con Anwar è stata per me un'occasione di riconciliazione con la mia città. Mi spiego meglio. Roma è una città disfunzionale, aggressiva, isterica. Le sue bellezze sono preda dell'industria turistica, i suoi abitanti sono vittime (ma anche carnefici) del traffico, della burocrazia, della noncuranza e dello spreco. Roma al contrario è vitale nei suoi interstizi, nelle situazioni nascoste ai margini del mainstream, dove è ancora possibile trovare poesia, ironia e autenticità. Sta a noi valorizzare queste situazioni, sostenere la gente che le tiene vive, anche solo con la nostra presenza. Io ho deciso di farlo con un film.