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La prima cosa che faccio, prima ancora di esplorare l’appartamento americano, è decidere dove posizionare la macchina da scrivere per avere vicinissime le foto dei miei morti. Mentre scrivo debbo poter vedere mio padre con il suo cane, la zia Teta con il colletto di pizzo, l’Elsa con la crestina e la teiera, lo zio Tini e la zia Laura che mi tengono per mano sul prato di San Lazzaro e tutti gli altri che non ci avrebbero mai creduto che un giorno sarebbero venuti con me in America. Me li sono portati da Bologna e se il vetro che li protegge, malgrado l’infinito viaggio in nave, non si è rotto è un buon segno per uno scrittore. Sono i miei morti che mi suggeriscono le storie da raccontare. Almeno a Bologna era così. Li fissavo bene, a volte anche per un giorno, e poi, all’improvviso mi mettevo a scrivere, fulmineo. Quando mi fermavo tornavo a guardare lo zio Taddeo che quattro anni fa è finito sotto un bombardamento. È il loro aiuto che mi è indispensabile. Ho scoperto che per scrivere delle belle storie devi avere molti morti. E io ne ho a sufficienza per aver scritto seiromanzi, pronti per qualcuno che finalmente li pubblichi. Senza contare quello che scriverò qui che sarà il mio primo romanzo americano. Quella del romanziere è una competenza che mi deriva da quando ebbi quell’altissima febbre per la quale mi ricoverarono per due anni al manicomio Roncati”.
Questa la descrizione iniziale del protagonista de L’ORTO AMERICANO. Una sorta di identikit psicologico (o forse addirittura psichiatrico) in cui molto mi riconosco. Protagonista che pur vivendo una vicenda che appartenendo a un “genere” che io e Antonio abbiamo praticato con una certa regolarità nell’arco lungo della nostra carriera (dalla remota CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO al più recente IL SIGNOR DIAVOLO) offrirà agli amanti del genere alcuni aspetti destinati ad ampliarne i già pur vasti confini.
La storia che narro, anticipata dal romanzo omonimo pubblicato da Solferino, è anche “scorrettamente” una storia d’amore. Una storia d’amore assoluta, dove l’impossibile diventa possibile, come in quel cinematografo che ho sempre amato. Un racconto “gotico” che si svolge al concludersi della seconda guerra mondiale vissuta sia nella provincia americana che nel Polesine, dove il ritrovamento di cadaveri di americani o inglesi rappresentò una lucrosa attività.
E poi la scoperta del bianco e nero, di quello autentico. Il comparare l’immagine reale che avevamo composto con la stessa immagine in b\n che si appalesava sul monitor mi produceva sempre un brivido, un momento di orgoglio infantile.
Non stavamo girando un film, finalmente stavamo facendo il cinema!
Pupi Avati