"
Tannim" è stato un frutto della noia. Della classica noia estiva che mi trascino ogni anno che passo in provincia, portandomi ingenuamente ad aggrapparmi ad un strana preghiera rivolta ad un destino che sembra voler giocare con le mie aspettative. Rimango in questa eterna attesa in cui sembra che da un momento all’altro, come in una favola, possa cadere dal cielo un “qualcosa” in grado non solo di cambiarti la giornata, bensì il senso della tua intera esistenza. Ma in fin dei conti è solo il non saper tollerare la lentezza malinconica dell’estate. Come
il giovane protagonista di "
Tannim", siamo ridotti alla speranza di non poter essere considerati solamente come dei piccoli viaggiatori di un’isola deserta, a non doverci giornalmente svuotare dei nostri desideri più reconditi, fino a resettarci per il giorno successivo. Eppure il sentimento del viaggio è anche questo. Con questa opera ho voluto esorcizzare l’impotenza nei confronti del tempo che passa, rimanendo in una stato puramente osservativo in cui questo mondo spoglio del movimento sembra voler spingere il protagonista a non affezionarsi neanche alla cosa più vicina al contatto umano che abbia mai provato in tutta la sua, purchè breve, esistenza. Abbracciare l’irresolutezza del giovane protagonista equivale al voler portare lo spettatore sul proprio, anche immotivato, vuoto interiore. Allo stesso livello di incomprensione. Di non rendersi prigionieri delle domande, e delle ineffabili risposte, e di vivere
fino in fondo questo lungo viaggio che è stato trascritto.
Lorenzo Levach