Queer
Luca Guadagnino cerca di ottenere la patente "definitiva" di grande autore e per farlo si affida a un testo (impossibile) di un autore tra i più noti del Novecento,
William S. Burroughs, costruisce il film come facevano le migliori produzioni degli anni Cinquanta, quando il libro "
Queer" è uscito (tutto viene quindi ricostruito in studio, in questo caso a Cinecittà) e chiede al divo di turno una performance che lo differenzi da quelle che lo hanno reso celebre (
Daniel Craig, raramente così lontano dall'essere James Bond).
La somma degli elementi però non fa il totale che il regista siciliano immaginava, e che era lecito aspettarsi: Guadagnino abbandona i virtuosismi pirotecnici del precedente "Challengers", rallenta il ritmo e sceglie un andamento più lineare, almeno per i primi due terzi del racconto, quelli forse più fedeli al testo originale. Poi arriva la giungla, arriva il confronto (temuto, agognato) con quello "specchio" minaccioso visto in una sala polverosa da Craig e dal suo amico-amante Allerton nell'Orfeo di Cocteau.
Alcol, droghe, attrazione sessuale, forse anche dei sentimenti: sono le forze che animano e sorreggono "Queer", che si appiattisce un po' sull'aspetto istintivo e sensoriale mancando uno dei punti di forza del romanzo, il senso di colpa.
C'è tanta bellezza, esposta e non. La solita maestria nel costruire una colonna sonora (si parte con
Sinéad O'Connor che canta i Nirvana, poi inevitabilmente si scende ma il livello e la varietà restano altissimi, con la sorpresa dei Verdena), la solita capacità nel costruire immagini eleganti e persistenti, la solita maestria nello scegliere i volti giusti (qui dal gigione
Jason Schwartzman, irresistibile, a Lisandro Alonso sperso nella giungla). E altro ancora, ma non basta.
04/09/2024, 00:11
Carlo Griseri