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UBERTO PASOLINI - "Una storia letta per caso"


Il regista è in tour per l'Italia accompagnando il film, uscito in sala oltre un anno dopo l'esordio a Venezia


UBERTO PASOLINI -
Uberto Pasolini
Dopo l'esordio a Venezia 77, "Nowhere special" è ora nei cinema italiani accompagnato dal suo regista, Uberto Pasolini. Lo abbiamo intervistato.

Dove ha trovato lo spunto per il film?
L'idea nasce da una notizia letta assolutamente per caso, anzi doppiamente per caso perché era su un giornale che non leggo normalmente, The Daily Mail, un giornale di destra, del piccolo conservatore inglese. Però era arrivato in ufficio e l'ho sfogliato: gli occhi sono caduti sulla storia di questo padre giovane che aveva passato gli ultimi mesi della sua vita a cercare una famiglia per il figlio di 4 anni. Lui stesso non aveva una famiglia sua, la madre del bambino era andata via poche settimane dopo la sua nascita e avevano una situazione economica molto limitata. Ho contattato i servizi sociali che si erano occupati del caso ma non mi hanno potuto dire nulla di più per la privacy, allora ho provato a capire cosa avrei fatto io nel suo caso: ho una vita enormemente privilegiata rispetto alla sua, ho una famiglia alle spalle e una situazione economica molto migliore.

Come ha proseguito la sua ricerca?
Ho parlato con molta gente che lavora nel campo dell'adozione e con altri che speravano di adottare o avevano appena adottato, oltre che con chi aiuta i bambini nelle situazioni difficili di lutto. Ho anche cercato di ricordare le mie sensazioni quando le mie figlie avevano quell'età (la cosa che mi ricordavo di più erano i pidocchi!), oltre a leggere anche molti blog di gente che sapeva di avere poco da vivere, non tanto per scriverlo nella sceneggiatura ma per aiutare James Norton a entrare nel ruolo.
L'intenzione era di fare un film diametricalmente opposto alla situazione che veniva raccontata, nel senso che tanto era drammatica la vicenda quanto doveva non esserlo il film: come il padre sdrammatizza al massimo la loro quotidianità e prova dolcemente a far capire al figlio la situazione, così fa o almeno vorrebbe fare il film con lo spettatore.
Le informazioni vengono centellinate, all'inizio non capiamo le scene che vediamo e mi piace che ci sia lo spazio per lo spettatore di trovare una propria lettura, una propria connessione con le persone - non con i personaggi - sullo schermo. in un certo senso quello che ho provato a fare è stato un documentario, volevo che non si sentisse la mia presenza come autore ma ci fosse solo un ritratto di questo rapporto d'amore. Non c'è né il primo né l'ultimo atto, c'è solo quello di mezzo, la loro vita quotidiana in cui succedono però le cose più importanti, la testimonianza del tentativo del padre di avvicinare il figlio alla realtà il più delicatamente possibile.

Come ha lavorato con il suo attore bambino, Daniel Lamont?
In maniera stranamente semplice: ci aspettavamo di dover fare un complesso montaggio di campi e controcampi, di dover catturare pochi secondi qua e là di un bambino che ovviamente non è un professionista e non sapeva bene cosa stava facendo.
Invece Daniel si è trasformato in un vero attore, ascoltava cosa gli chiedevamo di fare e lo ha fatto benissimo, ha capito subito la differenza tra lui e il suo personaggio: è molto più allegro, esuberante e pieno di vita di Michael e lo era fino al ciak, poi entrava nel ruolo seguendo l'esempio di James Norton, con cui giocava fino all'ultimo. Ma poi entrambi cambiavano a inizio riprese: hanno stabilito una vera connessione emotiva che si sente sullo schermo, è molto vero il loro affetto e la loro complicità, esisteva davvero e si vede.

Questo è il suo terzo film da regista in carriera: troppo pochi. Come mai?
Perché ho poca immaginazione, perché sono troppo antipatico e nessuno vuole lavorare con me, perché le poche idee che ho sono accettabili solo da me ma non facilmente condivisibili: ci sono progetti su cui sto lavorando da 25-30 anni, sono molto testardo e ci riprovo in continuazione. Ma non sono intelligente abbastanza da essere un produttore capace di muoversi nel mondo della grande finanza, non sono bravo a tessere rapporti sociali che sono fondamentali in questo settore... ho fatto molto poco, vero, ormai sono 35 anni circa che lavoro nel cinema e avrei dovuto fare di più.

C'è un filo che lega le sue tre regie?
Li lega il fatto che non sono affatto legati! Vengono tutti per caso dalla lettura di un fatto di cronaca: "Machan" era letteralmente solo un flash di agenzia di 5 righe, "Still life" era invece un'intervista a un'impiegata comunale che faceva il lavoro che ho poi affidato al mio protagonista.
Tutti e tre sono il frutto della reazione di curiosità di fronte a vite molto molto diverse dalla mia, questo forse li lega. Sono profondamente disinteressato alla mia vita privilegiata e ho usato per sbaglio - non per intenzioni morali o etiche - il cinema per scoprire qualcosa sulla vita degli altri. Non per generosità verso il prossimo ma semplicemente per curiosità, anche se poi c'è sempre un po' di politica nei film.
"Machan" voleva mostrare al pubblico come avremmo potuto essere noi spettatori se fossimo stati dall'altra parte: gli immigrati sono persone, non numeri. "Still life" parlava di solitudine nel mondo moderno: non mi sarebbe dispiaciuto se qualcuno alla fine del film si fosse deciso a suonare per la prima volta il campanello del vicino, ma non era una lezione di vita, non posso pretendere di mandare messaggi.
Spero che qualcuno del pubblico possa trovare la sua connessione emotiva, intellettuale o personale con quello che si vede sullo schermo.

Negli anni '90 è stato un noto produttore (celebre per "The Full Monty" ma non solo), un'attività che però svolge sempre meno.
Ma non è una parentesi chiusa, erano tutti film che volevo fare, storie in cui credevo e per cui ho trovato prima uno sceneggiatore e poi un regista, è una delle ragioni per cui ho fatto poco. Non appoggio le ispirazioni degli altri ma solo le mie, sono sempre stato io il motore iniziale dei miei progetti: per fortuna nel mondo anglosassone il ruolo del regista è anche visto come quello di un mestierante e non solo come un autore, che io non sono.
Io faccio un piccolo cinema di produzione, cosa che purtroppo ha limitato enormemente la mia vita creativa, intellettuale e anche personale, proprio perché mi sono concentrato su quel poco che usciva dal mio cervello invece di concedermi il lusso di condividere i sogni degli altri, è stato un grande errore ma è tardi per redimermi.
Mi fa piacere fare questo mestiere perché se avrò dei nipoti avrò un sacco di storie divertenti da raccontare loro, ma ne avrei di più se avessi lavorato con più registi e più sceneggiatori. A me mancano immaginazione e generosità, e ciò mi ha impedito di lavorare per i sogni degli altri, cosa faticosa e difficile. E' stato un vero errore strategico.

15/12/2021, 18:24

Carlo Griseri