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Note di regia di "Le Sorelle Macaluso"


Note di regia di
Il film è diviso in tre capitoli, ognuno dei quali corrisponde a un’età delle protagoniste: l’infanzia, l’età adulta, la vecchiaia.
Le protagoniste di questa storia sono cinque sorelle, di età compresa tra i nove e i diciotto anni. Nel primo capitolo la sorella più piccola, Antonella, muore a nove anni.
Nel capitolo successivo, Antonella continua ad abitare la casa ma mentre le altre sono cresciute lei è rimasta identica all’inizio. Nel secondo capitolo tocca a Maria morire, da adulta e nel terzo capitolo, quando ormai le tre sorelle sopravvissute sono anziane, Antonella e Maria permangono immutate.
Le cinque sorelle sono interpretate da attrici diverse nelle diverse fasi della loro vita.
Ci sono cinque attrici ragazzine nel primo capitolo; quattro attrici adulte più la stessa bambina del primo, nel secondo capitolo; tre attrici anziane, la stessa adulta del secondo e la stessa bambina del primo, nel terzo capitolo.
Nel film, dunque, le cinque sorelle sono interpretate da dodici attrici, come se a ognuna che resiste fino alla vecchiaia dovesse corrispondere una discontinuità e una mutazione nel corpo e nella faccia. L’attrice che interpreta una delle sorelle da giovane è diversa da quella che interpreta la stessa donna adulta. Noi potremmo essere disposti ad accettarlo perché sono due fasi differenti della vita, la giovane e la donna adulta sono persone diverse, sono cambiate.
Nel romanzo “L'amica geniale”, Elena Ferrante parla delle “smarginature” in cui i confini delle cose si sgretolano e le linee diventano sfumate, irregolari fino a perdere forma. Questa descrizione mi fa pensare a un cancro che riduce gli organi mangiucchiandoli e deformandoli dall'interno lasciando dei vuoti nella pelle, dei solchi che mutano l'aspetto della persona infestata dalla malattia.
Il risultato si vede nel tempo. Non è fulminante. È lento e progressivo come un cancro con cui si impara a convivere.
Questo film non parla di fantasmi, di revenant che tornano dalle viscere della terra, ma di presenze che restano, che non se ne sono mai andate come non se ne va il lampadario del soggiorno a meno che non sia qualcuno a sradicarlo dal soffitto.
Dall’inizio alla fine della storia, la casa è piena di oggetti ottusamente resistenti; oggetti costruiti dai morti e appartenuti ai morti, che probabilmente sopravvivono ai vivi. Come il lampadario, il tavolo, il letto matrimoniale, la finestra, anche le sorelle Macaluso sono ottusamente resistenti.
Nell’appartamento all’ultimo piano di una palazzina in periferia, le cinque sorelle, da anni, fanno sempre gli stessi gesti, come una collaudata partitura. Usano gli stessi oggetti nello stesso modo.
Ci accorgiamo che il tempo è passato dalla loro usura: i cocci di qualche piatto sono stati incollati, sul pavimento graffiato c’è un solco in corrispondenza di un incedere nervoso di Pinuccia sempre identico negli anni, nella vasca una sbeccatura nello stesso punto, la maniglia della porta finestra sistematicamente resta in mano a Katia quando apre o chiude, ma nessuno si è mai occupato di ripararla. Anche il peggioramento persiste come se fosse necessario all’equilibrio domestico della famiglia. Durante le sue crisi di nervi, Lia vorrebbe distruggere tutto: “questa poltrona deve morire prima di me”, ma alla fine desiste e lascia in pace la poltrona, posizionata nello stesso punto della stanza, da secoli. Nella casa, gli aloni dei quadri sulle pareti, testimoniano il tempo trascorso. Il buco che Lia fa nel muro lascia una ferita aperta per sempre.
Finché c’è la casa, permane la presenza delle sorelle. In un luogo in cui non si riesce a metabolizzare la morte, non si riesce a trovare il modo di farne qualcosa, non si sa dove "collocarla"; come se a prevalere, in quella casa, fosse appunto una distrazione strategica, un dimenticarsi di, un non avvedersi di che cosa andrebbe fatto.
Le sorelle Macaluso è un film sul tempo. Sulla memoria. Sulle cose che durano. Sulle persone che restano anche dopo la morte. È un film sulla vecchiaia come traguardo incredibile della vita.

Al centro della visione di regia c'è il desiderio di raccontare la mutazione di corpi e oggetti nel tempo. Gli oggetti, come i corpi delle sorelle, sono nel loro mutare nei settant’anni di esistenza di questa famiglia che raccontiamo. Lo sguardo della cinepresa è dinamico nel seguire i movimenti delle protagoniste, ma assume anche delle posizioni fisse all’interno della casa, come per rappresentare gli occhi dell'abitazione stessa. Questo “sguardo della casa”, ricorrendo più volte, diventa particolarmente evidente e riconoscibile dallo spettatore. Ancor più evidente è l’esistenza di tale sguardo nelle scene in cui le sorelle sono fuori dalla casa o dall’inquadratura, segno che gli occhi della casa non si chiudono nonostante l’assenza delle inquiline. La macchina da presa quindi scruta in modo ossessivo oggetti, corpi e movimenti restituendo la vita e l’evolversi della vita nella casa in modo del tutto originale. È esemplare in questo senso il finale del film, quando la macchina da presa, posizionata negli stessi punti di osservazione, consegna allo spettatore l’immagine della casa scarnificata e scorticata dal prelevamento degli oggetti che la abitavano e dall’uscita delle sorelle. La morte, quindi, entra davvero nella casa solo quando gli oggetti sono “asportati” dal loro contesto e le sorelle abbandonano definitivamente la loro dimora con la morte della sua custode principale. È possibile in questo modo trasmettere una delle riflessioni che stanno alla base del film: la forza vitale della memoria. È l’amore delle sorelle tra loro e per questa casa che tiene in vita la loro intera esistenza come fosse un unico organismo vivente a prescindere dalla morte fisica di alcune di loro; è lo spezzarsi, lo smembrarsi, lo svuotarsi, il denudarsi di questo organismo vivente che ne determina la morte.

Emma Dante