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PIERFRANCESCO LI DONNI - "La Nostra Strada"


Miglior film alla sedicesima edizione del Biografilm Festival (nel Concorso Biografilm Italia) tenutosi online durante il periodo di lockdown, “La nostra strada” di Pierfrancesco Li Donni è stato presentato alla 17° edizione de La Festa del Cinema del Reale Gold edition al Castello Volante di Corigliano d’Otranto (Lecce), diretto da Paolo Pisanelli


PIERFRANCESCO LI DONNI -
Pierfrancesco Li Donni
Un documentario semplice che parla della vita quotidiana, ma che fa riflettere sulla condizione dei ragazzi preadolescenti che vivono in un contesto sociale e culturale che molto spesso decide per loro sul futuro.

La figura di un professore speciale che sostituisce il ruolo della famiglia talvolta assente; quanto è importante per i ragazzi del quartiere Zisa avere accanto questo supporto “inconscio”?

"Il professore è sicuramente l’unico punto di riferimento istituzionale che i ragazzi hanno, riesce a farsi voler bene ed è difficile in scuole di frontiera, come quella dove ho filmato, trovare un professore che abbia un appeal. È una persona che si dà all’ascolto e ascoltando crea relazione. Ho parlato molto con lui, sin da quando ho cominciato pensare di girare il film, e ho sempre voluto che lui fosse una sorta di regista della parola. Ho creato una dinamica costante nelle riprese, c’erano gli intervistatori (il professore) e gli intervistati (i ragazzi) e lì sentivo che la telecamera non esisteva; avevo concordato un metodo con il docente, quando lui vedeva che filmavo un bambino per dieci secondi, sapeva che doveva porre una domanda; una sorta di patto tacito tra me e lui e chiaramente i bambini erano all’oscuro di tutto questo".

Anche il metodo di insegnamento è differente da quello adottato in scuole comuni.
"È un modo diverso di fare scuola nel senso che ci sono degli inciampi di contesto; il primo è che non tutti hanno i libri, il secondo è che la classe quasi sempre ha dei livelli di apprendimento e di scolarizzazione completamente diversi e quindi il professore preferiva, sia durante le riprese sia quando frequentavo la classe prima di girare il film, “lanciare dei semi”. Questo approccio all’insegnamento mi ha fatto pensare; io non volevo fare un film sulla scuola, ma sulla Zisa e la classe poteva essere una finestra su quel quartiere. Il rapporto importante tra il professore e gli alunni e i conflitti erano già dentro la storia, dovevano solamente essere raccontati e hanno fatto si che venisse fuori questa realtà; non faccio altro che raccontare come un professore riesca a ingegnarsi in una scuola di frontiera, di come riesca nel bene o nel male a lanciare dei messaggi o a trasmettere degli insegnamenti. Questi ragazzini, al di là del fatto che alcuni di loro non continuino a studiare, provano un grande amore e una grande forma di rispetto per il professore e questo rapporto c’è anche al di fuori del film e continua ad esistere".

Ascoltando i dialoghi del documentario e vedendo alcune scene di vita dei ragazzi, la somiglianza tra gli abitanti di tutto il sud Italia è fortissima, sia nello stile di vita sia nel dialetto e questo sottolinea molto probabilmente che c’è ancora una forte differenza tra nord e sud. Eppure, anche nelle province del nord Italia, si vivono alcune situazioni di abbandono scolastico e di ragazzi lasciati a loro stessi e ai loro sogni. Secondo te la situazione del sud Italia è diventata un luogo comune quando si trattano alcuni argomenti?

"È un fenomeno su cui non vengono puntati troppo i riflettori, ma una volta ho trovato una lettura molto interessante in cui si leggeva “esistono tanti sud d’Italia anche nel nord Italia e quel sud si chiama povertà”. Nel documentario c’è sicuramente una povertà declinata in modi differenti, educativa ed economica, il conflitto eterno tra la legge dello stato e la legge del rione esiste da sempre probabilmente, sia nelle grandi città e sia storicamente, però ce ne si dimentica perché si preferisce raccontare i numeri non le storie. Quando racconti le storie ti rendi conto che le persone che filmi sono nati solamente dalla parte sbagliata della città che ti porta a pensare su cosa sia realmente sbagliato. Perché deve essere il mio punto di vista quello giusto e non il loro? Chi sono io ad affermare che loro devono continuare ad andare a scuola? Nel miglior mondo possibile è così, ma siamo dettati anche dalle possibilità economiche e dal posizionamento sociale. E quando affermo che ci sono mondi che non si parlano mi riferisco a questo; la politica, le istituzioni, la società civile parlano sempre senza conoscere da vicino le cose. È importante girare documentari che possano ridare dignità a delle realtà, ma soprattutto fare un processo di conoscenza che è la cosa che manca sempre a tutti".

Il film sembra avere un copione già letto dove le personalità più forti in adolescenza si rivelano quelle più deboli crescendo, come Desirée. Al contrario i più deboli sono quelli che dal loro disagio riescono a reagire e raggiungere piccoli risultati, come Daniel.

"Penso che la grande fortuna di Daniel sia la curiosità e il desiderio di esplorare, è un ragazzo che “ruba i mestieri”, che osserva e lo faceva anche durante le riprese perché filmava, montava la telecamera. Quando la sera arrivavo a casa dei ragazzi ero spesso molto stanco dopo una giornata di lavoro e la loro vitalità entrava nella mia vita. In alcuni momenti sentivo di filmare perché lo dovevo fare, perché avevo delle scadenze importanti e Daniel prendeva la telecamera e si offriva di montarla, ma proprio per il gusto di governare quegli oggetti che non conosceva".

E poi c’è Simone, l’amante dei cavalli, che rimane in una situazione di stasi, rassegnato, ma che in fondo ama, è il suo mondo.

"Simone nel film appare rassegnato perché viene messo in relazione alla classe e al professore, ma in realtà Simone vive in un altro mondo che non è solo di cavalli, ma un ambiente di “combriccole”, un mondo di “paranze”, di famiglie, un mondo che è anche abbastanza brutale in cui lui ha deciso di stare per posizionamento, per fede".

In passato, negli altri tuoi lavori, hai trattato le difficoltà di Napoli, il tuo primo documentario parla su come i palermitani hanno reagito alle stragi di mafia. Ora hai deciso di ritornare a raccontare Palermo, la tua città, e per una volta un regista palermitano non punta l’attenzione sulla criminalità o la mafia, ma entra nell’intimo più profondo dei personaggi.

"Questa scelta fa parte di un percorso; il primo film l’ho girato perché dicevo sempre di voler espiare il peccato originale, se nasci a Palermo non puoi almeno una volta nella vita non raccontare quella realtà, anche perché ero pieno di tutti quei racconti e di quel mondo. Successivamente intraprendendo un percorso che va sempre più verso la poetizzazione della realtà, ho deciso che non volevo raccontare i fenomeni, ma le persone. La mia formazione cinematografica è fare film non tanto vederli e stando con gli altri acquisisco esperienza, riflessioni, ragiono sulle cose, imparo e mi oriento".

03/08/2020, 12:05

Sara Valentino