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Note di regia di C'e' Tempo"


Note di regia di C'e' Tempo
Quelle che state per leggere vengono definite le “note di regia”. Cioè il racconto dell’intenzione di chi ha costruito il film, la spiegazione del linguaggio scelto, il senso della storia raccontata.
“C’è tempo” è un piccolo film, arrivato dopo diversi documentari e migliaia di film visti. È la storia di un viaggio di due persone sole, legate dal filo di un Dna ma separate dalle condizioni sociali e dal tempo in cui sono nate e cresciute.
Stefano e Giovanni non si conoscono e hanno tutti i motivi, anche caratteriali, per detestarsi. Finché non si scoprono, attraverso le parole e il racconto reciproco di frustrazioni e attese. Perché, in fondo, è nella ricerca e nella scoperta dell’altro da sé che risiede la possibilità di vivere una vita compiuta.
Stefano è un precario che fa lavori poetici e poco redditizi, ma non aspira ad altro che a inseguire le sue passioni. Giovanni è un bambino solo, figlio di genitori ricchi, grandi e lontani, che ha trovato nel cinema riparo alla sua malinconia. Stefano è per lui un mondo sconosciuto, alieno dalla perfezione ovattata alla quale è stato abituato. La sua rumorosità è estranea al silenzio algido della casa di Giovanni. Ha tredici anni ma è saggio, come i bambini sanno essere e i grandi fanno fatica ad accettare siano. Ama il cinema perché gli fa vivere i mondi che gli sono stati negati. È la sua finestra sull’inconosciuto, su quello che esiste e forse è raggiungibile, oltre il suo silenzio. Incontrano una ragazza e sua figlia, Simona e Francesca. Anche loro, in fondo, sono sole. I quattro uniscono i loro viaggi e il loro tempo. Si scoprono e si piacciono, mentre l’Italia corre sotto le ruote di una mitica Volkswagen cabriolet.
Il film è – questa sì intenzione della regia – un evidente atto d’amore per il cinema italiano. Chi ama il cinema, cioè chi legge queste note, potrà riconoscere più di cinquanta grate citazioni, giocate tra scenografia, costumi, luoghi, battute…
Il film è anche un omaggio alla commedia all’italiana, quella che cercava di legare l’intenzione di comunicare significati e messaggi sociali e persino politici, in modo non aristocratico, con il rispetto e l’amore per tutto il pubblico, non solo quello più colto. La commedia che riusciva a far convivere le emozioni più diverse. Riusciva, insieme, a far commuovere e sorridere, se non ridere, chi andava al cinema.
L’arcobaleno, il contrario del labirinto, è un simbolo importante, di questi tempi. È un luogo reale e di sogno dove differenze radicali, quelle della luce e dei colori, convivono trasformandosi in una meraviglia per tutti. Il labirinto, luogo per definizione uniforme, ci isola e disperde. L’arcobaleno, esaltazione della diversità, ci unifica nella comunità di uno sguardo e di un incanto.
Nel film interpreta la parte di se stesso Jean-Pierre Léaud. Non è solo un omaggio a Truffaut, autore imprescindibile. È un omaggio anche all’idea di giovinezza e di vita, al desiderio di libertà, viaggio, dubbio del protagonista di “I 400 colpi”, Antoine Doinel.

Walter Veltroni