Una scena di "Porta Capuana"
"
Verrà il giorno che aspetto –
sento un aprirsi d’ala.
Ma il vivo pensier-freccia
troverà il suo bersaglio?
Se no, torner. dov’ero,
conclusi viaggio e tempo:
là – amare non potevo,
qui – amare mi spaventa".
(Osip Mandel’stam)
A Porta Capuana, luogo di frontiera tra passato e presente, si vive in una condizione di continuo spaesamento. Aldilà delle attuali politiche governative di stampo repressivo, già iniziate con le sciagurate leggi sulla regolamentazione migratoria degli ultimi venti anni, o malgrado esse, esiste un quotidiano, un fluido inarrestabile di rapporti, di contrasti, di viaggi, di visi, sorrisi e lacrime.
Sappiamo bene che chi arriva fin qui, in Italia, ha affrontato viaggi strazianti, ha visto compagni e familiari morire, si è lasciato dietro guerre e miserie, e approda con un carico di speranza quasi sempre tradito.
Ho cominciato a realizzare questo film nel 2010. Durante le riprese di un cortometraggio per il film collettivo Napoli 24, capii che quel brevissimo lavoro era solo l’inizio di una lunga storia. Cominciai a frequentare assiduamente il quartiere, in tutti i momenti del giorno attratto dalla complessità e dalla continua trasformazione della zona che, nonostante ciò, conservava nella sua essenza l’antico ruolo di frontiera della città, di un mondo.
Ho deciso di raccontare la sensazione di spaesamento che riguarda le persone e i luoghi in questa parte di città che diviene mondo. Lo spaesamento di un vecchio avvocato nell’attraversare il luogo che ha vissuto per cinquant’anni (Castel Capuano l’ex Tribunale) e che ora è vuoto ma carico di memoria; lo spaesamento dei nuovi arrivati, i migranti dalle zone povere e disastrate del mondo, lo spaesamento di chi a Porta Capuana ci è nato, ci vive e ci lavora. La sensazione labirintica che si percepisce negli spazi enormi delle vecchie fabbriche abusive all’interno del Lanificio Borbonico. E poi la babele del mercato del Borgo di Sant’Antonio che vede nei nuovi arrivati la possibilità di continuare ad esistere e resistere alla concorrenza dei centri commerciali,ma deve affrontare nuovi bisogni, nuovi costumi.
Stare sotto l’arco della Porta Capuana è come mettersi al centro del continuo flusso tra passato e presente e farsi attraversare dalla carica emotiva che porta con sé. Le molecole di questo organismo sono eterogenee, vi si intrecciano la memoria e la malinconia, la speranza e i progetti, la fretta di andare altrove, la voglia o la necessità di rimanere, il desiderio di affermare un’esistenza e quello di cambiarla radicalmente.
Bisogna cercare le giuste inquadrature per racchiudere la tensione del perdersi dell’attesa, della disperazione, della speranza, del movimento e della staticità, trovare la giusta distanza dalle cose e dalle persone. Per fare questo c’è bisogno di entrare in sintonia con ciò che si filma, cercando di far sparire la macchina da presa, rimanendo presente, cosciente di quel che accade.
Così ho strutturato il film, facendo attenzione all’intreccio di problematiche politiche e affettive che segnano indelebilmente i luoghi e il nostro tempo. Entreremo ed usciremo dalle dimensioni scelte con fluidità, seguiremo le persone e con loro scopriremo il modo di stare a Porta Capuana, di stare al mondo. In una contrapposizione dialettica nei confronti della realtà, il film alterna campi lunghi descrittivi a primi piani di volti che diventano paesaggi che raccontano storie.
Un riferimento visivo possono essere quei quadri di Bosch che si presentano nella loro composizione d’insieme come un enorme spazio caotico e indefinito, ma se ci si avvicina al quadro si scorgono infinite molecole di vita, e i ritratti di Antonello da Messina con tutta la bellezza e la profondità che li pervade.
Marcello Sannino