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NOME DI DONNA - Giordana torna al sociale


NOME DI DONNA - Giordana torna al sociale
Nome di donna
Con “Nome di donna” il regista milanese Marco Tullio Giordana, dopo “Due soldati”, film per la televisione non completamente riuscito passato a Locarno lo scorso anno nelle serata prefestival, ritorna ai temi sociali che da sempre sono il filo conduttore del suo essere regista.
Da ricordare gli eccellenti “Maledetti vi amerò” Pardo d’oro (a Locarno) nel 1980 e “La meglio gioventù”, epopea di una generazione, vincitore di Un Certain Regard a Cannes nel 2003.

Le molestie sessuali sul lavoro, tema di impellente attualità, sono il soggetto dell’ultimo lungometraggio di Giordana, messo in cantiere prima che il caso Weinstein sconvolgesse il mondo hollywoodiano, e terminato nel periodo che la società civile dimostra la dovuta sensibilità a questo grave problema e tante donne hanno detto con coraggio "#MeToo".

Nina è una giovane donna milanese single, con un compagno. Come molte donne abituate a crescere da sole i propri figli, vuole una sua indipendenza lavorativa e per questo accetta una sostituzione, ottenuta tramite un sacerdote, in una prestigiosa struttura per anziani benestanti, il Baratta, nella provincia lombarda. È un lavoro da inserviente ma lo affronta con entusiasmo, trasferendosi in provincia e iniziando quella che pensa possa essere una nuova vita. Solo che proprio all’inizio del suo incarico, dopo aver notato strani segnali e ascoltato conversazioni ambigue tra le colleghe, una sera viene convocata nello studio del direttore che le chiede favori sessuali in cambio di promozioni.

Dopo il suo fermo rifiuto inizia il suo calvario: mancanza di solidarietà da parte di alcune colleghe, ostracismo da parte di altre e perdita del lavoro. La sua è una vicenda tipica, che si ripete sovente e che è ancora più odiosa e detestabile in quanto rappresenta un ricatto morale da parte di chi detiene il potere. Questa prima parte del film che inquadra la triste vicenda di Nina è dettagliata, ma anche alquanto sfilacciata. La sua coralità è sfuocata, come lo sono i diversi personaggi secondari e ciò penso che dipenda dalla sceneggiatura e non dalla regia. La seconda parte, la partecipazione del sindacato e poi quella della ferrata avvocatessa, (una battagliera Michela Cescon) che porta in tribunale il direttore sanitario della struttura facendolo condannare per i suoi soprusi su Nina e su altre dipendenti, anche se perde l’aspetto intimistico, assumendo quello di “legal movie”, è più strutturata e più filmicamente scorrevole.

Abbastanza convincente, ma senza lode Cristiana Capotondi nel ruolo della protagonista, eccellente invece Adriana Asti in quello di una anziana attrice pensionata della Casa di cura, la quale oltre a consigliare Nina con molta arguzia definisce la differenza tra le avances galanti, che appartengono ad altre epoche e le pesanti molestie sessuali d’oggi. Nome di Donna è un film che merita di essere visto per i problemi che affronta e il modo come lo fa anche se è fragile nella sceneggiatura.

18/03/2018, 09:17

Augusto Orsi