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TFF32 - Un focus sul vicino e medio Oriente


TFF32 - Un focus sul vicino e medio Oriente
Eau argentée Syrie autoportrait
In un periodo in cui le cronache internazionali (ormai tristemente da anni) riempiono le pagine con ciò che accade nel vicino e medio oriente, il TFF32 ha proposto un doppio sguardo di e su parti di quella realtà.

Presenti con due film ciascuno, Iran e Siria hanno offerto agli spettatori di Torino momenti di cinematografia intensi e unici, imperdibili per chi è interessato al mondo islamico e/o arabo, ma anche per chi chiede al cinema di essere una lente d'ingrandimento sul mondo.

In linea con la storia attuale dei rispettivi paesi, le due coppie di pellicole si focalizzano su tematiche molto diverse: i registi iraniani (entrambi esuli in Europa) concentrati sugli aspetti intellettuali e artistici dell'essere islamici, sul dialogo tra culture diverse, tra laicità e religione; i registi siriani immergendo la videocamera nella feroce e disumanizzante realtà dell'attuale guerra civile.

In "Iranien", Meheran Tamadon (architetto e regista iraniano ateo trasferitosi in Francia a dodici anni) crea un'occasione di incontro con quattro mullah (un fine settimana nella sua casa di campagna fuori Teheran) per tentare di individuare insieme le norme che potrebbero regolare uno spazio pubblico comune, condiviso da ogni essere umano, di qualunque estrazione, razza e religione. Toccando tutti i classici temi su cui si dividono Islam e Occidente (velo e corpo delle donne, musica, libertà, diritti umani) i cinque protagonisti danno vita al confronto al quale avremmo sempre voluto assistere: partendo da iniziali inevitabili pregiudizi, da atteggiamenti più difensivi e provocatori che propositivi, si arriva con il passare delle ore a un più sincero ascolto, al genuino desiderio di far capire le proprie posizioni argomentando con lucidità, alla scoperta di un sentire comune.
Quello che lascia un film come "Iranien" è la sensazione che ora come ora le posizioni nella loro totalità siano inconciliabili, ma che il dialogo e il rispetto siano fondamentali (e purtroppo molto rari) per iniziare un percorso di comprensione. E comprendere è il punto di partenza per arrivare a condividere.

In "Life may be" il dialogo si trasforma in film epistolare, prodotto della corrispondenza tra due registi - il nordirlandese Mark Cousins e l'iraniana Mania Akbari - che si scambiano riflessioni politiche, culturali, personali e artistiche inviandosi "lettere filmate": "Aspettare la risposta, l'arrivo del prossimo film/lettera, è la sensazione più strana e sorprendente che abbia mai provato", rivela la co-regista, e la percezione dello spettatore è che assistere al confronto tra queste due anime sia un regalo.
Prendendo spunto dalla vita di Mania (che racconta nella sua prima lettera la vita felice a Teheran e la fuga a Londra attraverso Dubai e la Svezia) le riflessioni gravitano sempre sulla sua esperienza di esiliata, la tristezza della lontananza, l'amore e il rispetto per l'Iran e la sua arte, l'animo poetico e doloroso degli iraniani, il confronto con l'occidente stimolato dalle domande di Mark. Ma presto si va oltre il racconto, in cerca di un oggetto che aiuti a concretizzare e rappresentare i concetti di cui si parla, e la scelta cade su ciò che più di tutto ci appartiene, il corpo: nudità, svelamento e nascondimento, uso, agio o disagio, sono tutte metafore della vita che Mania e il suo retaggio culturale si trovano ad affrontare, e che il confronto con Mark aiuta a mettere in luce.

Incredibilmente vero e duro, "Eau argentée, Syrie autoportrait" è la realtà che ci schiaffeggia.
Obbligato alla distanza dall'esilio francese, il regista siriano Ossama Mohammed cattura immagini dal web per documentare al mondo, ma a se stesso prima di tutto, quello che sta accadendo nel suo paese. I video sono senza filtro, riprese che insistono su torture, cadaveri, uccisioni, bombe, palazzi che crollano, gente che corre, che urla, che comanda. Mohammed a volte aggiunge un sonoro fatto di effetti, o di un meraviglioso canto di donna (la colonna sonora - e la voce - sono della moglie del regista) fino a quando arriva un'occasione unica: il messaggio di una donna di Homs, la curda Wiam Simav Bedirxan, che gli chiede cosa riprenderebbe se fosse lì, e si offre di essere la sua operatrice sul campo.
Da questo momento in poi sarà il dialogo tra Ossama e Simav (in curdo "acqua argentata") a costruire il film, e se secondo il regista "le parole sono morte", le immagini della giovane donna sono vivissime: quale emozione condividere il suo sguardo su strade distrutte e deserte, attraverso una città decaduta e fantasma; gli osservati sono tutti indifesi, inermi e innocenti, dai profughi in processione agli animali feriti e dispersi, ai bambini, ma proprio da questi ultimi Simav trae forza per dare una direzione alle sue giornate, diventando insegnante della scuola della rivoluzione, e lasciandoci così le immagini più lievi (le uniche) del documentario.

"Al-rakib al khaled" di Ziad Kalthoum è l'unico lavoro - tra i quattro elencati - radicato completamente sul territorio.
Riservista dell'esercito governativo siriano, il regista viene assegnato alle riprese di un film a Damasco, e ne segue la lavorazione con la videocamera, producendo un vero e proprio backstage. L'obbiettivo insegue e cattura dichiarazioni che mettono a nudo il contesto in cui si trova la troupe, insistendo fino a essere indiscreto. Le riprese del film ci consegnano un'immagine di un paese che continua a vivere, ma l'intromissione della guerra è continua, portata dagli aerei militari, le bombe, i divieti, le paure, le storie raccontate: c'è chi più o meno velatamente si esprime a favore dei ribelli e chi a favore di Assad, ma in ogni discorso sono presenti del conflitto e le sue conseguenze.
Kalthoum sembra vivere le sue giornate come una ruotine, osservatore che indaga senza coinvolgimento, ma con una dichiarazione riportata in calce al film il regista aggiunge in extremis una diversa chiave di lettura, trasformando il documentario in un viaggio interiore che lo porta a prendere le distanze dal suo ruolo di soldato e dal regime che ha servito fino a quel momento.

30/11/2014, 18:56

Sara Galignano